AIUTO, ALL'ASSASSINO!
di Corrado AUGIAS
( da “I segreti di Parigi” – OSCAR MONDADORI – 1998 )
|
Poco lontano da Pigalle, poco lontano da quella piazza il cui nome è diventato sinonimo di licenziosità e sfrenatezza erotica (e che ricorda, invece, un celebre scultore del secolo XVIII), c'è, sulle pendici di Montmartre, una strada che si chiama rue Chaptal. Il numero 20 bis corrisponde a un breve vicolo cieco il cui fondo è chiuso da una sala teatrale. Al curioso e al visitatore può accadere di trovarla adibita agli usi più disparati, anche se negli ultimi anni è stata impiegata, in prevalenza, come «sala prove» da varie compagnie.
Eppure non si tratta d'una sala qualunque, anzi quell'ambiente non grande, architettonicamente movimentato, è stato un punto di riferimento fondamentale della drammaturgia europea perché è lì che, nel 1896, aprì i battenti un teatro il cui nome era destinato a connotare un genere e anzi a diventare addirittura un aggettivo: il Grand-Guignol. Se oggi alcuni cronisti possono scrivere, spesso con disinvoltura estrema, di essersi trovati davanti a uno spettacolo «da Grand-Guignol», è perché lì, al 20 bis di rue Chaptal, la scena francese celebrò, per conto dell'Europa, i fasti dell' orrore e della follia.
Il luogo del resto è di per sé fortemente evocativo, perché in quel vicolo cieco sorgeva un convento giansenista distrutto quasi interamente durante la Rivoluzione. S'era salvata la cappella che, sconsacrata, era diventata in seguito l'atelier del pittore Georges Rochegrosse (1859- 1938), un altro di quei carnali pompier che prediligevano le raffigurazioni di schiave recline sotto il tallone di un qualche conquistatore, nelle quali si cercava di mascherare con un'ambientazione classicheggiante la sostanziale sensualità del soggetto. I titoli: La fine di Babilonia, La pazzia di re Nabucodonosor, Salomé che danza davanti a re Erode eccetera.
Il paradosso del Grand-Guignol è di essere ormai impiegato molto più come termine metaforico che non in riferimento ai testi che vennero messi in scena e, insieme ai testi, agli effetti che quelle rappresentazioni produssero, alla funzione che svolsero, ai desideri che esaudirono.
René Berton, medico nonché autore del Guignol, scrisse:
Fra tutti i teatri parigini il Grand-Guignol è forse quello dove si respira maggiormente quella specie di atmosfera che si è convenuto di chiamare «atmosfera teatrale». Lo spettatore che per la prima volta entra nella saletta di rue Chaptal è colto fin dall'ingresso da un vago senso d'inquietudine. È strana questa lunga sala con i suoi muri ricoperti da tappezzerie scure, i suoi legni severi, quelle due porte misteriose e sempre chiuse ai lati della scena e quei due angeli inaspettati che sorridono enigmaticamente dall'alto del soffitto. E quando lo spettatore è comodamente seduto sulla sua poltrona, quando si sono uditi i tre colpi dietro il sipario, ecco che d'improvviso tutte le luci si spengono nella sala. E allora, nei pochi istanti che precedono l'aprirsi del sipario, il momento del gran brivido ... nel mezzo di questa improvvisa oscurità nella quale il pallore dei volti forma macchie biancastre come di spettri, in questo silenzio impressionante violato a volte da scoppi di risa nervose di qualche signora ... L'aria imbevuta d'angoscia pesa orrendamente sulle fronti madide. Tutte le grida di dolore, gli urli di terrore, i rantoli d'agonia che così spesso si sono uditi su questa scena, sembrano uscire dallo spessore stesso dei muri ...
Il Guignol rappresentò l'applicazione esasperata, estremistica e - come spesso accade agli esasperati e agli estremisti - talvolta caricaturale dei dettami del naturalismo. È un fatto che la ricerca degli «effetti speciali» nelle sue messe in scena raggiunse spesso i vertici che la tecnologia teatrale dell'epoca consentiva. Nel 1962, quando tutte le attrezzature vennero inventariate per essere vendute all' asta, si trovarono nei magazzini sarcofaghi di varia grandezza, ghigliottine, pistole di ogni tipo, fruste, pugnali a lama mobile e fissa, numerosi apparecchi di tortura, grande abbondanza di quelle «perette» di gomma che, riempite di emoglobina numero 2 (una tintura color rosso vivo), servivano a far sgorgare fiumi di sangue ovunque occorresse.
Camillo Antona Traversi nella sua Histoire du Grand-Guignol (Paris, 1933) osservò che tra tutti gli attori di quel teatro la più dotata e la più celebre fu senza dubbio la signorina Maxa:
Creatura stupenda, dai grandi occhi incantatori, dai tratti fini, è riuscita a darsi sulla scena di rue Chaptal una maschera tragica, il bel volto tormentato dagli orrori da lei vissuti con tanta bravura. La sua più grande forza è l'arte con la quale ha «saputo morire». Nella sua carriera di principessa dell'orrore la fatale circostanza le è capitata all'incirca tremila volte, in sessanta modi diversi. L'acqua, il fuoco, il ferro, la corda, lo strangolamento, lo sventramento, la decapitazione, il palo, il soffocamento: tutti i cammini che recano al fatale trapasso, la signorina Maxa li ha percorsi. Così le è capitato, per duecento sere di fila, di decomporsi in scena. L'operazione durava due buoni minuti durante i quali la fanciulla si trasformava lentamente in un cadavere ripugnante. Naturalmente «il lavoro» era accompagnato da una lunga serie di quei famosi «urli di gola» di cui la signorina Maxa conservava il segreto e l'esclusiva.
Se la signorina Maxa meritò, ancorché a caro prezzo, il titolo di «Sarah Bernhardt di rue Chaptal», André de Lorde (1871-1942), il più prolifico autore di testi per il Grand-Guignol, ebbe dallo storico Albert Sorel quello non meno onorifico di «Principe del terrore». Lorde (scomparso anche lui nel gorgo, nessuno se ne ricorda più) era, nelle descrizioni dei contemporanei, un omino pingue, soffice, dai movimenti aggraziati, ben rasato, incarnato roseo, sguardo vivo dietro le lenti montate in oro. Ma quell'aspetto di agiato borghese dissimulava un uomo capace come pochi altri di dispensare «le delizie della paura».
E, a proposito della paura, Georges Courteline aveva già scritto: «È singolare che con un unico termine si esprima la paura della morte, la paura della sofferenza, del ridicolo, di essere ingannati, oppure la paura dei topi: sentimenti diversi ed estranei». Di che tipo di paura si trattò nel caso di Lorde? Una volta Alfred Binet (1857-1911), che fu direttore del laboratorio di psicologia della Sorbona nonché autore del Guignol, disse che in Lorde era rimasto come un angolino d'infanzia: «C'è in lui un fanciullo che ha paura». Si tratta di un'opinione della quale bisogna tenere molto conto, perché Binet fu uno psicologo sperimentale, introdusse una scala di misurazione dell'intelligenza che divenne il prototipo dei test mentali, ma fu soprattutto l'autore di uno studio (Le alterazioni della personalità) che per anni Pirandello tenne come libro da comodino, citandolo spesso e ispirandovisi per i tanti «matti» e «doppi» che popolano le sue commedie.
«Mio padre» confidò una volta Lorde «era un medico e io ero dominato dalla curiosità incontenibile di sapere quel che accadeva nel suo studio. Egli voleva spegnere in me qualsiasi motivo di paura e mi portava con sé a costatare i decessi. lo non entravo nella camera mortuaria, ma restavo nella stanza accanto, nella quale mi giungevano i pianti e le grida ... » Divenuto adulto, Lorde continuò a provare un sentimento contrastante per la medicina e la scienza in generale: un misto di fascino e di sgomento, di attrazione e di repulsione per le patologie umane sia fisiche sia, soprattutto, mentali.
Per queste ragioni, così profondamente radicate nella sua biografia, egli riteneva che il pubblico non potesse non sentirsi attratto da opere nelle quali ritrovava un'eco dei suoi timori più segreti. Era vero? Personalmente ne dubito. Credo che al Guignol la gente andasse più che altro per capriccio, per stravaganza, per provare un brivido fittizio, per incanaglirsi senza rischio allo spettacolo delle sventure altrui. Uno spirito analogo a quello che spingeva le belle dame della borghesia a chiedere ai loro amanti di essere condotte per «un attimo» a visitare un asilo di alienati o, estremo confine della trasgressione, «una di quelle case».
La stessa mistura di fascino e di sgomento che tanti autori del Grand-Guignol provarono nei confronti delle patologie umane, soprattutto psichiche, la provarono altri autori nei confronti della scienza e della tecnologia. E le due cose, a ben pensarci, procedono di pari passo. Già alcuni anni prima, Maupassant aveva preso atto della crescente incompatibilità tra la cultura positivista, basata sulla scienza, e la dimensione visionaria e magica del romanticismo: «Ormai tutto può essere spiegato. La scienza» aveva affermato «di giorno in giorno fa retrocedere i limiti del meraviglioso». In realtà questo procedimento di rimozione era molto più contraddittorio, il bisogno di «fantastico» non stava scomparendo, bisognava però ridursi a cercarlo in luoghi nuovi e fino a quel momento inesplorati. Le fate, i maghi, le visioni notturne, i timori suscitati da fenomeni naturali inesplicabili lentamente si dissolvono. Al loro posto subentrano, sinistri e terrificanti, gli incubi suscitati dalla vita di ogni giorno, dalla quotidiana normalità cittadina, dalle stesse novità della tecnica. Lo storico Albert Sorel, a proposito di Lorde, aveva scritto: «Si dice che la scienza abbia distrutto la paura, distruggendo la superstizione. La scienza non ha distrutto niente: la superstizione ha semplicemente cambiato aspetto ed è diventata scientifica ... ».
Incertezza e paura dunque rimangono; il loro campo di applicazione però si sposta, e dall'esterno, dall'ambiente, dal luogo, dall'ora, va a collocarsi all'interno dell'individuo, nella sua mente, in quel complicato coacervo che si scopre essere la sua psiche. Oppure si estende a quelle stesse novità della tecnologia che sembravano essere nate per sconfiggere ogni ragione di paura. Uno dei risultati di questo processo sono le oscure fantasie che il simbolismo scova nella quotidianità, come ho cercato di raccontare nel V capitolo di questo libro.
Un grande successo di Lorde (e di Charles Foley) fu per esempio Au téléphone (Al telefono), in cui si mette in scena la storia di un uomo che, richiamato a Parigi da affari urgenti, deve lasciare la casa delle vacanze, isolata in un bosco, dove si trovano la moglie, la cameriera e il figlioletto. Una volta giunto in città, riceve una telefonata dalla moglie terrorizzata che gli dice di aver udito dei rumori sospetti. Il seguito della vicenda è la «radiocronaca» che la donna fa al telefono dell'ingresso in casa dei ladri e del loro graduale avvicinarsi. Il marito non può che ascoltare impotente, col cuore in gola (proprio come gli spettatori). A un tratto le parole della donna s'interrompono, si odono alcune grida strozzate, poi più nulla. L'uomo impazzisce.
Au téléphone, uno dei primi terrorizzanti spettacoli ispirati a una novità della tecnica, fu tra i maggiori successi del Grand-Guignol e non solo in Francia. In Italia il più celebre interprete del testo di Lorde e Foley fu il grande attore Ermete Zacconi, re del naturalismo. Esiste una serie di fotografie che ritraggono Zacconi mentre si produce in una magistrale serie di «smorfie» ascoltando al telefono il terrificante racconto della moglie in balia dei suoi assassini.
Un altro strepitoso successo di Lorde fu Le système du docteur Goudron et du professeur Plume (Il sistema del dottor Catrame e del professor Piuma), tratto dal racconto omonimo di Edgar Allan Poe: due giornalisti, in visita a un manicomio, si intrattengono col più pericoloso dei ricoverati che si fa passare per il direttore. Scoppia un temporale e i pazzi, lasciata la tranquillità simulata, si abbandonano alle loro ossessioni e tentano di uccidere i due estranei. Gli infermieri riescono in extremis, e a stento, a salvarli. Un rivolo di sangue che scorre sotto una porta fa scoprire l'atroce fine del vero direttore, il cui cadavere viene ritrovato orrendamente mutilato.
Anche un moderno (allora) mezzo di comunicazione come il treno è stato più volte al centro di drammi del Grand-Guignol. Ne La nuit rouge (La notte rossa), sempre di Lorde e Foley, si racconta di un deviatore che riceve, sul luogo di lavoro, la visita della fidanzata con la quale sta per sposarsi. Quando lei decide di rincasare, sola nella notte, l'uomo vorrebbe accompagnarla per proteggerla da brutti incontri ma non può perché sta per sopraggiungere un treno. Poco dopo, i suoi timori si avverano: la fidanzata viene aggredita nel buio e comincia a invocare aiuto. Il pover'uomo vorrebbe accorrere ma non può, perché già s'annuncia il treno col suo rombo in rapido avvicinamento. Tragicamente diviso tra amore e dovere, l'uomo sceglie quest'ultimo: si getta sulla leva dello scambio, sconvolto dal dolore e dalla follia. I viaggiatori sono salvi, la giovane donna è morta.
La verosimiglianza degli allestimenti, in particolare quelli ferroviari, era di tale livello che André Antoine, scrivendo su «L'Information» (10 ottobre 1921) a proposito di Rapide 11.13 (Il rapido numero 13), disse fra l'altro:
Ciò che si deve lodare vivamente è la stupefacente messa in scena: i treni passano sferragliando dietro i vetri della cabina; i segnali luminosi, i richiami lontani e il tuono della catastrofe sono di un realismo che attanaglia lo spettatore.
Alla fine del secolo XX, dopo tanto horror cinematografico e televisivo, noi siamo ovviamente spettatori molto più disincantati. Ma gli allestimenti del Grand-Guignol, il loro sforzo per catturare lo spettatore, restano comunque all'origine dei moderni «effetti speciali» studiati per creare suspense. Il teatro prima, il cinema poi hanno aggiornato in questo modo un bisogno vecchio quanto il mondo. Come scrisse lo stesso Antoine:
Da quando gli spettatori si riunirono davanti ai primi palcoscenici, si sono sempre emozionati al contatto dell'ignoto e del mistero; dalle origini il teatro di tutti i popoli ne ha subito l'ossessione. La scena antica risuona ancora dei gridi delle Eumenidi ...
Il Grand-Guignol fu anche un teatro politico? Lo fu, anche se in modo non sempre consapevole. Fu politico nel senso che riuscì a rappresentare, talvolta malgré soi, le difficoltà e le ansie di anni che, come ho già detto, solo per pigrizia continuiamo a chiamare «Belle époque». Loro, gli uomini e le donne che vissero gli anni tra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale, la pensavano in ben altra maniera. Come affermò Lorde:
Se si volesse caratterizzare lo stato d'animo della nostra epoca basterebbe una parola: l'inquietudine. Questa inquietudine si mostra in ogni avvenimento. Che lo confessiamo o no, un'oscura angoscia attanaglia la maggior parte dei nostri contemporanei ... Questo secolo febbrile non ha conosciuto la gioia di vivere; ha visto invece fin dal suo inizio farsi più grande una minaccia ogni giorno più precisa ...
Il Grand-Guignol fu uno degli «strumenti» attraverso i quali inquietudini e minacce affiorarono alla coscienza e vennero messi sotto gli occhi di chiunque volesse prenderne atto. In quel genere di teatro c'è senza dubbio una parte di orrore fine a se stesso, come il costume dell' epoca (e gli interessi di botteghino) imponevano. Vengono però rappresentate anche crudeltà e disavventure che sono altrettante bocche di cratere attraverso le quali è possibile intravedere il disordinato tumulto di sentimenti nascosti: l'ansia per il futuro, la paura delle malattie, lo sgomento di fronte alla follia, il timore per i disordini sociali e via dicendo.
Nel dramma Une leçon à la Salpêtrière (Una lezione alla Salpêtrière), per esempio, l'autore immagina che un assistente del primario conficchi un elettrodo nel cervello di una ricoverata, rendendola paralitica, più per gesto sadico che per un qualunque scopo scientifico. C'è, esplicita, la consapevolezza di come negli istituti di medicina i pazienti siano ridotti al rango di cavie da esperimento; torna, con molta forza, la convinzione che sono numerose nella società moderna le distorsioni da abolire o correggere, ma nel testo serpeggia anche una sorta di accusa, muta e insistente, che il gesto vendicativo della paziente (lancia del vetriolo in faccia al suo aguzzino) non basta a cancellare dalla mente dello spettatore.
Quando parliamo degli aspetti «politici» del Grand-Guignol non dobbiamo, tuttavia, esagerare. Sarebbe fuori luogo, per esempio, aspettarsi una coerenza di testi e di allestimenti tale da farci dire che si trattò di un teatro «di sinistra». In realtà, visto in termini destra-sinistra, il Grand-Guignol fu semmai neutro. Non neutrale, neutro. Nel senso che sulla scena di rue Chaptal vennero rappresentate le inquietudini di un'epoca, a prescindere dal significato che avrebbero potuto assumere in un' ottica politica tradizionale. Faccio due esempi.
In La cage (La gabbia), di Lucien Descaves, una famiglia di borghesi caduti in miseria decide di procurarsi la morte per asfissia. Durante la lunga agonia, che corrisponde alla durata reale del dramma, i due figli, Maddalena e Alberto, tentano di dare un significato più ampio al loro gesto e immaginano un suicidio collettivo di tutti i poveri e gli sfruttati: «La miseria» dicono «incapace di ribellarsi, accumuli almeno le sue vittime sulla soglia dei malfattori responsabili e li denunci». È il primo scatto dell'immaginazione, quello che permette di passare da una condizione di sconfitta familiare all'utopia di un grande sacrificio collettivo. A questo passaggio ne segue, poco dopo, un secondo, decisivo: l'esercizio della violenza non su se stessi ma sugli oppressori. Mentre i genitori soccombono, Maddalena e Alberto spalancano la finestra sottraendosi alla rassegnazione: «I nostri genitori» dice uno di loro «sono morti dove il primo sforzo li condannava a morire, sulla breccia della proprietà. Spetta a noi allargare questa breccia, quelli che verranno dopo daranno l'assalto».
Siamo, come si vede, quasi in un quadro da realismo socialista dei momenti peggiori. Un esempio di segno opposto può invece essere considerato Sabotage (Sabotaggio) di Charles Hellem e Pol D'Estoc. Un operaio sindacalizzato della compagnia di elettricità riesce ad organizzare uno sciopero della sua categoria. La luce s'interrompe proprio nel momento in cui un medico, chiamato d'urgenza, sta eseguendo un intervento sul figlio del protagonista che rischia di morire soffocato da un attacco di difterite. Quando l'operaio rincasa, annuncia esultante: "Lo sciopero è riuscito, abbiamo vinto!». Sua moglie in lacrime risponde: «Sì, ma hai ucciso tuo figlio».
Il Grand-Guignol ha avuto una certa fortuna anche in Italia, sulla quale non è il caso che mi soffermi in un libro dedicato a Parigi. Voglio però citare una piccola curiosità. Su questo teatro e sulla recitazione che i suoi testi imponevano agli attori, due dei nostri maggiori critici d'inizio secolo si sono espressi in termini opposti. Il primo, Silvio D'Amico, ha scritto a proposito di Alfredo Sainati che, insieme a sua moglie Bella Starace, fu uno dei massimi interpreti di Guignol:
Questo infelice, costretto tutte le sere a parlare imbrogliando le sillabe, a stralunare gli occhi, a tossire (quanto tossisce!), a camminare sempre di sbieco, a dar saggio di tutti i tic immaginabili se non a farsi cavare gli occhi, questo attore che non può abbandonarsi mai perché deve contraffare sempre un essere così diverso da lui (lui è, immaginiamo, un uomo normale), finisce per produrre in noi un'oppressione che alla lunga non si sopporta.
Di tutt'altro parere Antonio Gramsci che, quando era critico teatrale dell'«Avanti!». scrisse (aprile 1916):
Alfredo Sainati e Bella Starace sono maestri nel raggiungere gli effetti che si propongono di conseguire. La materia bruta, il tritume del fatto di cronaca, si organizzano nella elasticità della loro personalità artistica che sa atteggiarsi nei modi più truci, più sanguinosamente suggestivi ...
Di che cosa morì il Grand-Guignol? Di tante cose, ma prevalentemente di due. Morì soprattutto perché il cinema, con i suoi effetti tanto superiori dal punto di vista spettacolare, ebbe il sopravvento, e morì perché dopo la carneficina della prima guerra mondiale l'emoglobina numero 2 non spaventava più nessuno. Come aveva predetto Albert Sorel nel 1908, «La vie sera réellement I'hallucination vraie». Sarà la vita, la vera allucinazione.
|
|