LE AVVENTURE DI TRE OROLOGIAI
E DI TRE AUTOMI

 

di Italo CALVINO

 

( da “Collezione di sabbia” – OSCAR MONDADORI – 1994 )

 

 

 

 

Molte volte l'impegno che gli uomini mettono in attività che sembrano assolutamente gratuite, senz'altro fine che il divertimento o la soddisfazione di risolvere un problema difficile, si rivela essenziale in un ambito che nessuno aveva previsto, con conseguenze che portano lontano. Questo è vero per poesia e arte, come è vero per la scienza e per la tecnologia. Il gioco è sempre stato il grande motore della cultura.

 

La costruzione degli automi nel Settecento precorre la rivoluzione industriale che metterà a frutto soluzioni meccaniche escogitate per quei complicati giocattoli. Certo va detto che la costruzione di automi non è stata soltanto un gioco, anche se come tale si presentava: era un'ossessione, un sogno demiurgico, una sfida filosofica nell'equiparazione dell'uomo alla macchina. La fortuna dell'automa come tema letterario, da Puskin a Poe a Villiers de l'Isle-Adam, conferma la forza di questa fascinazione, le sue componenti tanto iperrazionali quanto inconsce.

 

Tutte riflessioni suscitate da un insolito volume iconografico pubblicato da F.M. Ricci sugli «Androidi» di Neuchâtel (Androidi, le meraviglie meccaniche dei celebri Jaquet-Droz, con testi di Roland Carrera e Dominique Loiseau, Franco Maria Ricci editore). Nel Settecento, Neuchâtel era la capitale dell' orologeria non solo come artigianato ma anche come scienza (i sei volumi degli Essais sur l'horlogerie di Ferdinand Berthoud). Recentemente il museo di Neuchâtel con un minuzioso lavoro di restauro meccanico ha riportato a nuova vita tre famosi automi, lo «scrivano», il «disegnatore» e la «musicista», costruiti più di duecent'anni fa da maestri di quella tradizione, i Jaquet-Droz padre e figlio e J.-F. Leschot.

 

 

 

 

 

Il volume di Ricci documenta dettagliatamente con le tavole a colori l'aspetto esteriore e il meccanismo interno dei tre «Androidi»; con le tavole in nero le loro prestazioni grafiche e gli spartiti delle musiche suonate al clavicembalo, mentre i testi raccontano la storia dei costruttori e delle loro creature, le caratteristiche tecniche e le ultime operazioni di restauro. (Inoltre nel cofanetto è inserito anche un disco, col repertorio della «musicista»prima e dopo il restauro).

 

Come mai un libro così tecnico e fattuale trasmette un senso di turbamento? Certo nulla fanno questi tre «Androidi» per attenuare il loro aspetto di bambole o per nascondere la loro sostanza di ordigni. Forse bisognerebbe ripercorrere le pagine di Baudelaire sui giocattoli e quelle di Kleist sulle marionette per comprendere le ragioni di questa perdurante fascinazione. Qui poi il Settecento grazioso e galante dei pizzi sui polsini e sui colletti e il Settecento freddo e analitico delle tavole dell'Enciclopedia sono compresenti e sottolineati all' estremo; e il nome «Androidi» fonde queste suggestioni in un'evocazione di fantascienza avanti-lettera, come d'una specie vivente intermedia tra l'uomo e la macchina, o d'un popolo di possibili invasori, nei quali finiremmo per riconoscere i nostri doppi.

 

 

 

 

 

Lo «scrivano» o «scrittore» è quello che ha la faccia meno intelligente ma il meccanismo più complicato: il polso si muove in tre direzioni, la penna d'oca traccia le lettere coi pieni e i vuoti della regola calligrafica, s'intinge nel calamaio, cambia di riga come una macchina da scrivere, e un dispositivo la blocca quando mette il punto fermo. Un sistema di giochi di camme gli permette di tracciare le lettere dell'alfabeto, minuscole e maiuscole, e di comporre le frasi fissate nel programma.

 

Le performances del «disegnatore» sono apparentemente più d'effetto ma il meccanismo è molto meno complicato di quello dello «scrittore». Il suo repertorio è di quattro disegni, fissati all'epoca della costruzione, tra i quali un cagnolino e il profilo di re Luigi XV. Vuole l'aneddoto che in occasione d'un'esibizione davanti a Luigi XVI e a Maria Antonietta, l'operatore emozionato, dopo aver annunciato il ritratto del re da poco defunto, sbagliasse la manovra di messa in moto: sotto la matita dell'automa apparve il cagnolino, «il che diffuse un certo disagio».

 

Mentre il viso dei due virtuosi della grafica è quello di due bambolotti infantili, la suonatrice di clavicembalo è una bambola-donna con un'espressione e un mistero, per la quale si possono immaginare invaghimenti perversi come quelli raccontati da Tommaso Landolfi o da Felisberto Hernandez. L'autore del commento spiega che essa è «l'unica bambola al mondo che respiri, partecipando così alla nostra vita, traendo in apparenza la fonte della propria esistenza dalla stessa aria da cui dipende anche la nostra» e si chiede se essa non dovesse «offrirsi attraverso la sua tenue musica a un innamorato smarrito in delizie irreali, o anche ravvivare a Pierre Jaquet-Droz il ricordo immortale della giovane sposa perduta per sempre... »

 

 

               

 

 

La storia di Pierre Jaquet-Droz (1722-1790) è una bella vita settecentesca con tutte le regole. Per dedicarsi all'orologeria, abbandona gli studi di teologia. La sua arte si perfeziona con frequenti soggiorni a Parigi (dove già dalla generazione precedente alcuni maestri neuchâtelesi s'erano stabiliti come orologiai di corte) e trova fondamento all'università di Basilea nella frequentazione di Johann Bernoulli e d'altri membri di quella celebre famiglia di matematici.

 

Dalle montagne del Giura la fama di Jaquet-Droz s'estende presto in Europa. Neuchâtel a quell' epoca, pur aderendo alla confederazione svizzera, era un principato soggetto al Re di Prussia, e le relazioni con le corti straniere erano più strette che altrove. Con un carro carico delle sue pendole Jaquet-Droz arriva fino a Madrid, e ottiene alla corte di Spagna la consacrazione della sua maestria.

 

 

                              

 

 

Tornato in patria, fonda col figlio Henri-Louis (1752-1791) e il figlio adottivo Jean-Frédéric Leschot (1746-1824) un laboratorio a La-Chaux-des-Fonds. Egli è ormai a capo d'una ditta affermata, ed è allora, al colmo della sua fortuna, che decide di costruire gli «Androidi». Di chi sarà stato l'impulso decisivo? Dei Bernoulli? D'un dottore del luogo che le cronache descrivono come un po' inventore, un po' naturalista, un po' mago? Di Leschot il cui ritratto (mentre quelli dei Jaquet-Droz padre e figlio sono piuttosto inespressivi) rivela una faccia di gnomo sapiente?

 

Sta il fatto che dopo il 1773-74, data della costruzione dei tre automi, la vita dei tre orologiai cambia; essi vivono soprattutto in funzione delle loro creature, mostrandole a visitatori illustri e portandole in tournée per le capitali europee. Ma nello stesso tempo la loro ditta s'allarga; fondano una succursale a Londra per esportare in Cina e in India preziosi orologi, carillons, uccelli canori e altre meraviglie meccaniche.

 

 

 

 

 

Comincia però a crearsi una certa confusione: quando si dice «i Droz», si parla dei tre orologiai o dei tre automi? I «tre Droz» ormai sono questi ultimi: così li vediamo designati in una stampa dell' epoca; le tre bambole meccaniche hanno assunto nomi e cognomi di membri della famiglia. Non conosco la data precisa della stampa: siamo prima o dopo la presa della Bastiglia? Si direbbe che gli automi, ribellatisi, abbiano rivendicato la loro autonomia e usurpato l'identità dei loro inventori.

 

Fu per questo che la grande impresa Jaquet-Droz entrò in crisi e fece rapidamente fallimento? Certo la Rivoluzione francese portò un duro colpo al mercato degli articoli di lusso e le guerre napoleoniche sconvolsero le esportazioni; ma la crisi pare sia stata precedente, una crisi di cui risentì tutta l'orologeria svizzera.

 

 

 

 

 

Fatto sta che gli «Androidi» nel 1789 non figurano più nell'inventario della società. Passano di mano in mano, sempre esibiti al pubblico come attrazione spettacolare. (Oppure sono loro che, dopo aver proclamato i «diritti dell'automa», si spostano liberamente per l'Europa?) Nelle loro tournées finiscono a Saragozza assediata dai napoleonici e vengono poi catturati e condotti in Francia nel bottino di guerra. Riprendono le peregrinazioni e le esibizioni internazionali, che durano tutto il secolo scorso.

 

Singolare prova di fedeltà: per tutto il secolo i cittadini di Neuchâtel non si sono mai dimenticati dell'esistenza di questi tre loro figli sperduti per il mondo; ogni tanto uscivano sui giornali locali appelli a rintracciarli e recuperarli. Cosa che avvenne nel 1905, mediante una pubblica sottoscrizione. (O furono loro, gli automi, a voler tornare in patria? Avevano intrapreso le loro peregrinazioni sulle orme dei grandi avventurieri del loro secolo, imperturbabili ottimisti come Cagliostro, Casanova, Candide. Ma all'alba del secolo s'erano accorti in tempo che il mondo stava per diventare impraticabile per chi era mosso da meccanismi vitali così semplici e trasparenti. Conveniva ricordarsi che erano cittadini svizzeri, prima che fosse troppo tardi). Nel programma dello «scrivano» venne inserita questa frase che egli ancora traccia con la sua grafia settecentesca: « Non lasceremo mai più il nostro paese».