IL BARACCONE DELLE FIGURE DI CERA

 

di Gustav MEYRINK

 

( da “Racconti di cera” - LA BUSSOLA EDITRICE )

 

 

 

 

 

 

(…..) Sulla piazza del mercato, priva di lastrico, c'era il baraccone delle figure di cera, e sui cento piccoli specchi smerigliati, che in cima alla tenda formavano sfaccettate le parole:

 

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Museo Orientale di Mohammed Daraschekoh

 

presentato da Mr. Congo-Brown

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brillava roseo l'ultimo bagliore del tramonto.

Le pareti di tela della tenda, dipinte rozzamente a scene eccitanti, selvagge, ondeggiavano un poco e si gonfiavano ogni tanto come gote dalla pelle troppo tesa, quando qualcuno trafficando nell'interno vi si appoggiava contro.

Due scalini di legno conducevano all'ingresso, e lassù, sotto un riparo di cristallo, stava la figura di cera a grandezza naturale, d'una donna con una maglia di lustrini.

Il viso scialbo, dagli occhi di vetro, si volgeva adagio a guardar giù sulla gente, che s'affollava attorno alla tenda, dall'uno all'altro; poi guardava di fianco, come se aspettasse un comando segreto dal bruno egiziano che sedeva alla cassa; scattava con tre scosse tremule della nuca facendo ondeggiare i lunghi capelli neri, e dopo un poco, esitando, tornava a fissare sconsolata davanti a sè, e a ricominciare gli stessi movimenti.

Di tempo in tempo, la figura storceva all'improvviso braccia e gambe, come per un violento crampo, gettando indietro la testa con impeto e ripiegandosi fino a toccare i calcagni con la fronte.

 

 

 

 

“Quel motore là mette in moto il meccanismo che produce queste orribili contorsioni,” disse Sinclair a mezza voce, ed accennò la macchina bianca dall'altro lato dell'ingresso, che lavorando in quattro tempi, produceva un rumore cadenzato.

“Elettricità, vita, sì, tutto vivo, sogghignava l'egiziano, tendendo giù un manifesto stampato. “Fra mezz'ora il principio sì”.

“Crede lei possibile che quell'arabo sappia qualcosa della dimora di Mohammed Daraschekoh?»domandò Obereit.

Ma Melchiorre Kreuzer non sentì. Era immerso nello studio del manifesto, e mormorava fra sé i passi che spiccavano in modo speciale.

l gemelli, magnetici, Vayu e Dhanàndschaya (con canto)… che è? - hanno visto anche questo ieri?» domandò all'improvviso.

Sinclair disse di no. “Gli artisti vivi debbono prodursi oggi per la prima volta, e..,»

 

 

(…..) Il numero del programma: «Fatma, la perla dell'Oriente» era finito, e gli spettatori si riversavano di qua e di là o guardavano, attraverso i fori praticati alle pareti coperte di panno rosso, un rozzo panorama dipinto che rappresentava l'assalto di Dehli.

Altri stavano muti davanti ad un sarcofago di cristallo, nel quale giaceva un turco morente, che respirava a fatica,col petto insanguinato trapassato da una palla di cannone, i margini della ferita bruciati e bluastri.

Quando la figura di cera alzava le palpebre plumbee, lo scricchiolio del meccanismo passava leggermente attraverso la cassa, e molti appoggiavano l'orecchio alla parete di vetro per sentirlo meglio.

Il motore all'ingresso battendo il tempo metteva in moto una specie di organo.

Una musica a sbalzi, sfiatata, con certi suoni, forti e sordi allo stesso tempo, che avevano qualcosa di singolare, di ammorzato, come se risuonassero sott'acqua.

C'era nella tenda un odore di cera e d'olio di lampade fumose.

 

 

 

 

 

N. 311: «Obeah Wanga, Craniomagico dei Vindous», spiegò Sinclair, leggendo dal suo foglietto, mentre osservava con Sebaldo, in un angolo, tre teste umane recise, che con una fedeltà straordinaria, la bocca e gli occhi spalancati, guardavano fisso con orribile espressione da una cassetta murata alla parete.

“Ma non sai che non sono di cera, che sono vere!” disse Obereit stupefatto tirando fuori una lente. “Soltanto, non capisco come possano essere state preparate. E' straordinario! Tutto il taglio del collo è coperto di pelle, o questa v'è cresciuta sopra. E non mi riesce di scoprire nessuna cucitura! Si direbbero proprio delle zucche cresciute liberamente, senza aver mai riposato su spalle umane.... Se si potesse solo alzare un po' la campana di vetro !”.

«Tutto cera, qui, cera viva, qui, teste di cadaveri molto belle, e al fiuto… fi...» disse improvvisamente dietro di loro l'egiziano. Era scivolato in vicinanza, senza che se ne fossero accorti, e la sua faccia si contraeva come se soffocasse una pazza voglia di ridere.

I due si guardarono spaventati.

 

 

 

 

(…..) La musica cessò un istante di suonare; fu battuto sopra un gong, e una voce stridula di donna, dietro una tenda, gridò: “Vayù e Dhanàndschaya, i gemmelli magnetici, di otto anni, la più ggran maravviglia del mondo! I gemmelli cantano!”

La gente s'affollò intorno al palco, in fondo alla tenda.

“ Vayù e Dhanàndschaya... i gemmelli cantano!”, gridò di nuovo la voce.

Il sipario si aprì lateralmente, ed a passi vacillanti comparve sul palco un mostruoso essere vestito da paggio, con un pacco sul braccio.

Il cadavere rifatto vivo d'un annegato, a toppe variopinte di velluto con galloni d'oro.

Un'onda di ribrezzo passò tra la folla.

Quell'essere aveva la corporatura d'un adulto, ma i lineamenti d'un bambino. Viso, braccia, gambe, tutto il corpo, le dita stesse, erano gonfie in modo inesplicabile.

Tutta quella creatura, a guisa d'un sottile caucciù, pareva gonfiata.

La pelle delle labbra e delle mani incolore, quasi trasparante, come se fossero piene d'aria o d'acqua, e gli occhi spenti e senza segno d'intelligenza.

Il suo sguardo vitreo si fissava incessantemente in giro.

“Vayù, il fratello maggiore”, spiegò in un dialetto straniero la voce femminile; e di dietro il sipario, con un violino in mano, usci fuori una figura di donna in costume di domatrice, con degli stivali rossi alla polacca, orlati di pelliccia.

“Vayù”, ripetè essa, accennando l'essere con l'archetto del violino.

Poi aprì un quaderno e lesse ad alta voce:

 

«Questi due bbimbi di sesso maschile, hanno già otto anni, e sono la ppiù grande maravviglia del mondo. Sono attaccati soltanto da una specie di cordone ombellicale, lungo tre braccia, e trasparentissimo; e a sseppararne uno, anche l'altro deve morire. Tutt'i i sappienti se ne stuppiscono. Vayù è molto sviluppato per la sua età. Ma rimmase addietro d'intelligenza, mentre Dhanàndschaya ha un'acutessa di spirito pennetrante, ma è così piccolo. Come un neonnato. Perchè è nnato sensa ppelle, e non può crescere. Va ttenuto in una vessica d'annimmale con acqua calda di ffunghi. E' il più ggrande scherso di nnatura ».

 

 

                                       

 

 

La donna fece un cenno a Vayù in seguito al quale questi svolse esitando il pacco che aveva sul braccio.

Venne fuori una testa grossa come un pugno, dagli occhi acuti.

Un volto, coperto d'una rete di vene azzurrognole, un viso di neonato ma con un'aria da vecchio, e con un'espressione cosi perfidamente stravolta dall'odio, così maligna, così piena di tale indescrivibile depravazione, che gli spettatori si ritrassero involontariamente.

“Mi... mi... mio flatello D... D... Dhanàndschaya”, balbettò l'essere gonfio, ricominciando a guardare incessantemente il pubblico...

“Portatemi fuori, mi pare... di svenire, Dio del Cielo”, mormorò Melchiorre Kreuzer.

Gli amici lo accompagnarono, semincosciente, a lenti passi, traverso la tenda, sotto lo sguardo scrutatore dell'egiziano.

La donna aveva imbracciato il violino, ed essi la sentivano ancora strimpellare un motivo che l'essere gonfio accompagnava cantando con voce quasi afona:

 

lo avevo un ca-me-ra-ta. non se-ne-dà- il mi-lior.

 

E il neonato, incapace di articolare le parole, strillava con toni taglianti le sole vocali:

 

Jiii-à-u-à-e-àa ooòee-eà-ii-i-oò.

 

Il dottor Kreuzer s'appoggiò al braccio di Sinclair, e aspirò con forza l'aria fresca.

Dalla tenda venivano gli applausi degli spettatori. (…..)