I CANTASTORIE DI PIAZZA
di Francesco GUCCINI
( da “Dizionario delle cose perdute” – Libellule Mondadori – 2012 )
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Ora i cantastorie non esistono più. Sono scesi in piazza, le ultime volte, alla fine degli anni Sessanta, ma già defunzionalizzati, solo un'ombra di quello che erano.
Non vendevano più i "fogli volanti", i "fatti", come li chiamavano loro: storie trucide in rima, colme di delitti efferati, ed episodi di cronaca vera o inventata. La televisione, più che la radio, li aveva uccisi, e un pubblico ormai smaliziato (o che si credeva tale) li snobbava. Così si erano ridotti a vendere lamette da barba, lacci da scarpe, piccoli strumenti musicali come armoniche a bocca o ocarine, dischi a 45 giri o musicassette delle loro canzoni. A volte anche qualche "foglio con canzone" andava via, ma non era più come un tempo.
«Una volta» dicevano «eravamo noi a portare le notizie: non c'era la televisione e la radio ce l'avevano in pochi. Eravamo noi a girare le piazze e a raccontare tutto quello che succedeva in Italia e nel mondo.»
Una dichiarazione un po' partigiana, ma in una certa misura vera. Giravano le piazze, sì, i mercati, spesso avversi alle autorità che non li vedevano di buon occhio, ostili in genere agli ambulanti, temendo magari qualche dichiarazione, soprattutto durante il fascismo, non del tutto consona al potere. Forse qualcuno l'avrà anche fatto, ma la maggioranza stava ben attenta a non turbare in nessun modo qualsivoglia autorità: i cantastorie erano per la legge e l'ordine, e si capisce, farsi togliere il permesso di lavorare voleva dire saltare la piazza e il guadagno che si sarebbe potuto ricavarne. Non erano dei coraggiosi, non erano romantici cantori come qualcuno forse li ha immaginati senza conoscerli veramente, erano seri professionisti ben consci del loro lavoro.
Arrivavano, anche da soli ma più spesso in due, il cantastorie vero e proprio e la spalla; a volte erano gruppetti di famiglia. Mettevano il banchetto con la loro roba (o addirittura un piccolo palco) e cominciavano a fare "treppo", cioè a cercare di radunare gente attorno, suonando un qualche strumento che permettesse anche di cantare, la fisarmonica o la chitarra, il sassofono o il clarinetto, l'ocarina o l'armonica a bocca, accompagnando a volte quest'ultima con due cucchiai battuti l'uno contro l'altro a mo' di nacchere. Raramente avevano anche una piccola batteria.
Attirata la gente iniziava "l'imbonimento", un piccolo spettacolo fatto di musica e parole per invitare il pubblico a stare ad ascoltarli, fino al momento, calcolato con grande sensibilità, della "rottura", l'offerta della merce da comperare.
Si vestivano anche in maniera curiosa. Il bolognese Marino Piazza (Piazza Marino, poeta contadino) e la sua spalla (Vincenzo Magnifico detto Bobi, un ex acrobata diventato clown dopo una rovinosa caduta, poi cantastorie) indossavano gilet colorati e la bombetta, che Piazza faceva oscillare abilmente avanti e indietro corrugando la fronte; Giovanni Parenti, da Pavullo, Modena, detto anche Padella, aveva un cappello a cilindro su cui aveva cucito uno stemma dell' aviazione americana, un tredici con le ali: era "l'uomo del tredici". Ma ce n'erano tanti altri, ricordo soprattutto, al lavoro, il bolognese Tonino Scandellari, il romagnolo Lorenzo De Antiquis, i toscani del gruppo Bargagli.
Quando si era radunata abbastanza gente, dicevo, i cantastorie cominciavano a imbonire, cioè a fare in modo, a chiacchiere, che la gente comperasse la merce che vendevano o i fogli volanti. Prendevano un fatto e lo cantavano, fermandosi a spiegare, a commentare, cercando di commuovere, giocando sull'elemento emotivo. Le musiche erano due o tre, sempre le stesse, in modo che fosse facile, per chi acquistava il foglio, ricantare il fatto una volta tornato a casa. Di solito era in quartine di decasillabi, non sempre regolari:
Franceschini Otello partiva per il Belgio a lavorare in miniera e a sua moglie così ci diceva: “E abbi cura del nostro figliol”.
Poi c'erano strofe di versi irregolari come L'aria di Caserio:
Il sedici di agosto sul far della mattina il boia avea disposto l'orrenda ghigliottina mentre Caserio dormiva ancor senza pensare al suo triste orror
e un paio di motivetti per le "parodie", canzoncine a tema ironico o satirico. Nella zona bolognese c'erano le "zirudelle", componimenti umoristici dialettali in quartine di ottonari a rima baciata: Piazza, per esempio, con la scusa di una ragazza scomparsa (ma lo era poi veramente?), nominava in dialetto quasi tutti i paesini della provincia di Bologna.
Questi fatti rimanevano nella memoria popolare come se fossero dei canti della tradizione orale, e venivano cantati anche anni dopo che l'avvenimento, vero o falso che fosse, era stato raccontato, mentre il ruolo avuto dai cantastorie veniva del tutto dimenticato.
Ma erano veri o falsi? Spesso i fatti erano tragedie pubbliche, terremoti, inondazioni, naufragi, ma soprattutto delitti. I cantastorie erano abilissimi a cogliere le motivazioni del sentimento popolare, a toccare le corde della commozione (ma non fanno così anche certe trasmissioni televisive?).
Dato un tema, poi, veniva sfruttato in numerose varianti. Nel dopoguerra, per esempio, nasce la saga del prigioniero che, creduto morto, riappare a casa. Fatto accaduto realmente, numerose volte. Ma si innesta un elemento nuovo: la giovane moglie ha un amante, e questi dice alla donna di sbarazzarsi del figlioletto (o figlioletta), se vuole continuare la relazione. Il delitto però non riesce per intervento soprannaturale di una catenina (donata dal padre al pargolo alla partenza per la guerra) con l'immagine di un santo miracoloso. Variante: l'intervento del fido cane che salva il bambino (o bambina) dalle acque di un fiume (o lago) dove è stato buttato (" gettata nel fiume Po dalla crudele madre"), o lo ritrova, quasi morente di fame e sete, in una capanna dove è stato abbandonato. Altra variante: finito il filone del prigioniero, compare l'emigrante che deve andare all'estero per lavorare; rimangono la sposa infedele e l'intervento miracoloso. Finale con giusta e repentina punizione per i colpevoli.
Una variante clamorosa del tradimento con soppressione della prole, questa volta riuscita, viene presentata nel fatto La barbara ostessa (del cantastorie Giuseppe Bracali), così riassunto nel sommario esplicativo del foglio volante:
"Un'indegna madre, per contrarre un nuovo matrimonio, commette uno dei più orrendi delitti umani. Fa a pezzi la propria bambina per disfarsene. Cucina poi le tenere carni di questa, e le serve con indifferenza e cinismo ai propri clienti. Ma un uomo, mangiando, si accorge del macabro misfatto e dà l'allarme."
Se i cannibali sono feroci una donna li può somigliare e una madre li può superare per l'infamia del barbaro cuor.
Anche costei, rimasta vedova, ha un giovane amante, ma l'uomo (come nella tradizione dei giovani amanti) si rifiuta di proseguire la relazione se la donna non elimina la figlioletta. Detto, fatto: la madre uccide la bambina e, per nascondere il crimine (il "misfatto", si dirà), la cucina come spezzatino e la serve ai clienti.
Tutti dicono: "È buono davvero ne vogliamo un'altra porzione", quando nella sala si leva una voce: "Cara ostessa, venite un po' qua io un piccolo dito ho trovato ... "
Conclusione: intervento della forza pubblica e giusta punizione.
Insomma, falsi o veri? Alla mia domanda Marino Piazza rispose: «Sa com'è, caro Guccini, purtroppo quei bei delitti non c'erano sempre ... ». Bisognava pur vivere.
E per vivere i cantastorie andavano in tutti i mercati. Piazza, ultimamente, aveva un'automobile, ma per un periodo ha girato in moto e poi in sidecar, lui e la sua spalla in sella e gli strumenti, i fogli e tutto il resto nel carrìolino. Mi raccontava un collega di Piazza (Boldrini, famiglia di cantastorie della Cavazzona di Castelfranco Emilia, Modena) che una mattina avevano già fatto tre treppi. «lo ero stanco morto» mi diceva, «l'ultima piazza l'avevamo fatta in Romagna. C'eravamo fermati a mangiare e Marino mi fa: "Sbrigati, Boldrini, così facciamo in tempo a fare anche Ancona, che c'è un mercato". Allora non c'era mica l'autostrada, eravamo in giro dalle cinque della mattina. Dico: "Sì, Marino, ma voglio guidare io!". "Sì sì, guida pure tu, basta che andiamo ad Ancona!" Finiamo di mangiare e partiamo. A un certo punto Marino mi urla: "Ma cosa fai, Boldrini, Ancona è da quell'altra parte, dove vai?". E io: “A vag a murir int al me lèt”, vado a morire nel mio letto.»
Negli anni Cinquanta i cantastorie ormai erano in decadenza, non c'erano più giovani a fare il mestiere e la televisione stava conquistando l'Italia. Cominciarono allora a vendere fogli con le canzoni lanciate dalla radio o dalla tv, i "canzonieri". Quando cominciò "Sanremo", Piazza mi diceva che comperava i dischi delle canzoni presentate al Festival. «Li ascoltavo per due o tre giorni; dopo, le canzoni che mi erano rimaste in mente erano di sicuro quelle che la gente avrebbe voluto e le facevo stampare.» La casa editrice era la Campi, di Foligno. Il foglio, con i testi delle canzoni e le foto di dive castamente scollacciate e di cantanti italiani famosi, si chiamava "Sorrisi e canzoni". Vi ricorda niente? E’ da lì che è nato il celebre settimanale.
Certi imbonimenti dei cantastorie sono diventati proverbiali e studiati persino all'università. Famoso quello di Adriano Callegari, di Pavia (suonava Il sassofono), che lavorava ultimamente coi coniugi Angelo e Vincenzina Cavallini (lui suonava la fisarmonica, lei la batteria e ancora la fisarmonica, oltre a cantare).
Iniziavano l'imbonimento presentando un fatto, il caso di Ermanno Lavorini, il bambino ucciso nella pineta di Viareggio nel 1969. «Ma» diceva Callegari «non voglio che poi si dica che speculiamo su questa tragedia che ha commosso tante persone, non venderemo niente, lo facciamo solo per ricordare quel povero bambino.» Partivano gli strumenti, poi cominciava la canzone, ma, alla fine della prima strofa, Callegari interrompeva l'esecuzione con un gesto plateale. «Basta, ho visto tante mamme e tanti papà piangere, anch'io che sono padre (non era vero) so cosa vuol dire; basta, non possiamo continuare.» La verità è che la canzone non esisteva, esisteva soltanto la prima strofa, ma intanto la gente si era intenerita e ben disposta verso la sensibilità dei cantastorie.
Altro trucco dell'imbonimento: a un certo punto Callegari si fermava e guardando in mezzo al pubblico diceva: «No, signore (o signora), ho sentito quello che ha detto al suo bambino: "Vieni, andiamo via che questi sono dei ladri, degli imbroglioni". No, è inutile che neghi, ho sentito benissimo, ma voglio dirle che noi non siamo né ladri né imbroglioni, siamo poveri e onesti lavoratori che cercano di guadagnarsi da vivere onestamente» eccetera eccetera. Ma poiché buona parte della gente aveva effettivamente pensato che fossero ladri o imbroglioni, lui era riuscito a ribaltare la frittata e a instillare nel pubblico il senso di colpa. Tant'è vero che, invitato alla Televisione della Svizzera Italiana, Callegari esordì dicendo: «Prima di cominciare vorrei dire una cosa: mentre eravamo fuori a scaricare gli strumenti, è passato un signore che ha detto al figlio: "Vieni via che questi sono dei ladri, degli imbroglioni". Vorrei dire a tutti che non siamo né ladri né imbroglioni, siamo poveri e onesti lavoratori» eccetera eccetera.
Nell'ultimo periodo il gruppo Callegari-Cavallini vendeva una scatola di plastica trasparente, chiamata "cofanetto", che recava sul dorso un medaglione con l'effigie in rilievo di papa Giovanni XXIII, fosforescente («Così lo potete mettere sul comodino e lo vedete anche di notte!»). Dentro c'erano una catenina in similoro (ma quanti giri di parole per non dire "similoro") con immaginetta sacra e un batuffolo di cotone imbevuto (così dicevano) nell'acqua di Lourdes. In più un libretto con le canzoni di Luciano Tajoli (fedelissimo, sostenevano, della Madonna di Lourdes, per la sua "disgrazia": era stato colpito dalla poliomielite). Il tutto per mille lire. «Ma vi de-vo avvertire. Se viene qui uno di malavita, un rovinafamiglie, uno sempre all' osteria o peggio, e ml dà anche diecimila lire, gli dico no, mi dispiace, ma questo cofanetto lo do solo alle persone oneste, e per sole mille lire.»
Callegari mostrava anche una scatola contenente, diceva, dei topi ammaestrati, e la posava a terra: in questo modo le prime file del pubblico si stringevano e le seconde si facevano avanti attorno al palco.
Così era un po' il cantastorie, l'imbonitore, sempre con nuove invenzioni, anticipatore dei tanti venditori televisivi, in una piazza che oggi non è più una piazza, ma solo un agglomerato di baracche e chioschi di mercati tutti uguali, dovunque si vada.
C'è una parola, credo bolognese, per indicare un parolaio, un venditore di fumo: cioccapiatti. Penso si riferisca a quei venditori che in piazza vendevano piatti imbonendo e sbattendoli l'uno contro l'altro, per far vedere che erano robusti, che non si rompevano facilmente.
I cantastorie un po' cioccapiatti lo erano, ma soprattutto erano "poveri e onesti lavoratori". Soprattutto erano ingenui e raffinati professionisti.
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