LA FIERA, IL CIARLATANO, IL CIRCO

 

di CORDELIA

 

(estratto da “Piccoli eroi” di Cordelia - Virginia Tedeschi Treves, - Ed. Fratelli Treves, Milano, 1892)

 

 

 

 

[.....]

 

LA FIERA.

 

La mattina, mentre Maria colle sorelle ed Angiolina attendevano alle faccende domestiche, i ragazzi solevano fare una passeggiata fino al villaggio.

Un giorno ritornarono tutti animati, allegri, raccontando che nei giorni seguenti ci doveva essere la fiera del villaggio: avevano letti gli avvisi che promettevano feste, fuochi e luminarie: poi in piazza incominciavano già a piantar banchi, baracche, per mostrare fenomeni viventi, un teatro di burattini, una giostra e tante altre cose; doveva proprio essere una vera baldoria, ed essi erano contenti pensando di approfittare di tutti quei divertimenti.

Maria disse chiaro e tondo che non li avrebbe lasciati andare a divertirsi se prima non avessero dedicato qualche ora allo studio, perchè ci doveva esser tempo per tutto e che non pensassero di starsene in piazza tutto il giorno.

 

 

     

 

 

Carlo ed Elisa non volevano intendere quelle ragioni, e replicarono che durante la fiera volevano far festa, come tutti quelli del villaggio, e facevano progetti di divertirsi, d'assistere a quegli spettacoli, e già, prima del tempo, cominciavano a distogliere la mente dallo studio. Maria con quei due ragazzi pigri ed insubordinati si sentiva scoraggiata e avvilita nella sua impotenza di renderli ubbidienti.

Guai se gli altri non l'avessero compensata delle sue fatiche colla loro dolcezza di carattere e colla loro ubbidienza! Specialmente Giannina la rendeva contenta cercando d'imitare l'Angiolina, la quale era una perfetta massaia e una ragazza ben educata e piena di cuore.

Maria era sempre più contenta d'aver invitata l'Angiolina, perchè colla sua operosità dava il buon esempio alle altre. Essa la mattina si alzava prima di tutti, e dopo aver dato aria alla camera ed essersi lavata e pettinata, rifaceva il suo letto ed anche quello di Elisa, la quale non finiva mai di star allo specchio a ravviarsi i capelli, e non le parea vero d'avere un'amica che facesse anche la sua parte di lavoro.

- Come sei buona! - le diceva, - ma che non sappia Maria che sei tu quella che metti in ordine la camera, altrimenti mi sgrida.

- Mi piace tanto, mi fa tanto bene questo moto, diceva l'Angiola; e intanto andava di qua e di là a spolverare i mobili, e quando aveva finito scendeva per dare una mano a Maria e alla donna di servizio.

Poi si mettevano tutte a lavorare, e quel giorno appunto dovevano terminare di orlare delle lenzuola, e ci si misero tutte e tre con molta assiduità per restare libere pei giorni di fiera. Angiolina rimpiangeva la macchina da cucire della sua mamma, ma la Maria diceva che aveva piacere che le sorelle s'avvezzassero a cucire a mano; esercitavano così la pazienza, stavano tranquille e potevano chiacchierare.

- Le macchine, - disse, - vanno bene quando c'è fretta, ma forse sono una delle ragioni per cui le donne al giorno d'oggi sono tanto nervose, non dico per te, Angiolina che sei un'eccezione; ma mi pare più sano raccogliersi intorno al tavolino e stare assieme a discorrere. Guardate come sta bene Giannina, orlando il suo fazzoletto. - Infatti quella bimba lavorava con una grazia che faceva venir voglia di baciarla.

Mario si annoiava quando le ragazze lavoravano, e andava a tirar loro le trecce e non le lasciava un momento in pace.

- Bada che domani non ti conduco alla fiera, - disse Maria, - se non stai tranquillo.

- M'annoio, - disse Mario.

- Fa qualche cosa.

- La vostra caricatura, allora.

- Quello che vuoi, basta che ci lasci quiete.

Ma mentre le ragazze facevano andar l'ago sulla tela colla massima rapidità, i ragazzi erano distratti e continuavano a parlare dei divertimenti che avrebbero goduto il giorno appresso.   [ …………… ]

 

 

     

 

 

LETTERA DI ANGIOLA ALLA SIGNORA MERLI.

 

“Cara mamma.

Come sei stata buona a lasciarmi venire in campagna colla signora Morandi! Quanto mi diverto!

E quante cose avrò da raccontarti al mio ritorno.

Da tre giorni siamo in piena baldoria, c'è la fiera in paese e ci siamo dati tutti alla pazza gioia.

Però oggi la signorina Maria volle che si rimanesse in casa a raccogliere le nostre idee, e per non restare oziosi ci disse di scrivere le nostre impressioni sulla fiera del paese.

È una specie di gara, per vedere chi di noi scrive meglio, e questa sera il professar Damiati giudicherà, e classificherà i nostri componimenti.

Io approfitto subito di questa giornata di tranquillità, e sono felice di aver tempo di scriverti; ma Carlo quando seppe che oggi si stava a casa, ha fatto il muso, l'Elisa andò di malavoglia a prendere i suoi quaderni, e sento Mario, nella stanza vicina, irrequieto, che s'alza ogni momento per correre alla finestra ad ogni più piccolo rumore che vien dalla strada.

- Ma mi accorgo che anche la mia signora figlia si perde in divagazioni inutili, - mi par di sentirti dire.

Hai ragione, mammina mia, ed ecco che torno all'argomento.

T'assicuro che la vita di questi giorni pare un sogno. Il nostro villaggio non è più riconoscibile.

 

Nella piazza quasi sempre spopolata e tranquilla, tanto che quando passavamo per andare alla messa o alla posta, non s'incontrava che qualche donna colle secchie la quale andava ad attingere l'acqua alla fontana, o qualche contadino colla gerla sulle spalle, c'è un frastuono indiavolato, intorno alla chiesa sono collocati dei banchi colle tende bianche, e sui banchi una quantità di oggetti variopinti e luccicanti, che si vendono per quarantanove centesimi, e una folla di contadine vestite da festa, alcune venute dalle montagne, nei loro costumi tradizionali, colle camicette bianche ricamate, i corpetti di velluto, la vita corta, e le vesti di panno con bordure rosse, che guardano cogli occhi meravigliati, tutta quella roba, incerte su quello che devono comperare; poi banchi pieni di dolci e frutta, e in terra mucchi di stoffe variopinte, poi delle altre distese sui muri, e i venditori che gridano da assordare, e una folla che non lascia passare se non a forza di spintoni.

 

La parte più interessante dello spettacolo è sul prato dietro la chiesa, dove c'è una giostra che è il gran divertimento dei ragazzi, poi il teatro delle scimmie, che mi ha tanto divertito, ed è molto buffo. Pensa, delle scimmie vestite da gran dame, coi cappellini piumati, e i vestiti guarniti di gale, che fanno delle scene buffe e graziose.

Ce n'è una che mi piace tanto; si mette il cappellino davanti allo specchio, come si potrebbe far noi, si guarda con compiacenza, poi quando un'altra scimmia vestita da cameriera, le dice che la carrozza è pronta, sale in carrozza, - una carrozzella colle ruote dorate, e tirata da due cani bardati con molta eleganza, - si sdraia, sui cuscini con grande sussiego, tenendo colla mano l'occhialino, e di tanto in tanto facendosi vento con un gran ventaglio.

 

 

                                       

 

 

Il cocchiere e lo staffiere sono due scimmie vestite di azzurro, coi cappelli a cilindro, coi galloni d'oro, e anch'esse stanno sedute a cassetta, così impettite e serie come la loro padrona.

Quando la carrozza ha fatta due o tre giri sul palcoscenico, la signora scende, e si fa portare da mangiare; pare che le vivande non siano di suo aggradimento, perchè va sulle furie, e getta il piatto in faccia al cameriere, e irritata sbattendo il ventaglio, salta in carrozza, e via senza salutare nessuno. Se sapessi quanto ci ha fatto ridere! ti assicuro che non ne potevo più.

 

Fuori, sul prato, abbiamo assistito ad un altro spettacolo. Una compagnia di saltimbanchi avea steso un tappeto, tirata una corda, e facevano salti ed esercizii ginnastici.

C'era una bimba, tanto carina, che l'avrei mangiata coi baci. Avea una bella faccia bianca, coi capelli biondi come l'oro, e degli occhi dolci e buoni, tanto che mi pareva, una piccola fata; essa mi faceva compassione così vestita, succinta con un piccolo gonnellino a pagliuzze d'argento. Ballava sulla corda con molta grazia, e tutti andavano pazzi per lei; però anch'essa si diverte, ed è tutta felice quando le battono le mani.

La chiamano Polentina, e il pubblico non è mai sazio di vederla, tanto che quando ha terminato i suoi giochi, si sente gridare da tutte le parti:

- Ancora, ancora, Polentina, - e lei, quantunque stanca, e rossa infocata, riprende i suoi esercizii allegra e sorridente.

Benchè essa sembri contenta della sua sorte, io la compiango; e quando ho veduto la sua casa, ho pensato quanto io sia felice d'avere una mamma come te, che pensa a farmi star bene, e degli amici come i Morandi che mi fanno tanto divertire.

 

 

         

 

 

Se vedessi la casa di Polentina!

È un carro coperto di tela, dove dorme assieme al suo babbo, che suona la gran cassa; alla sua mamma, che dice la buona ventura, vestita da zingara, e ad uno scimmiotto.

In quel carro dormono, fanno da mangiare, e si portano da un paese all'altro, dove vanno a ripetere sempre i medesimi giuochi.

Povera gente! Eppure non si mostrano malcontenti della loro sorte.

 

Mi sono anche molto divertita a vedere la cuccagna, ch'era una cosa nuova per me.

Tu, sai già di che cosa si tratta: è un albero alto alto, liscio, dove in cima sono attaccate tante buone e belle cose, che i contadini devono conquistare, arrampicandosi lassù, a furia di braccia e di ginocchi, ciò che riesce abbastanza difficile, perchè quell'antenna è tutta insaponata e sdrucciolevole.

Se avessi veduto quanti ragazzi tentavano quella salita, e poi non erano ancora a mezza strada che scendevano giù sdruccioloni, fra le risate e i motteggi di tutta la popolazione.

Finalmente, dopo molti tentativi inutili, uno riuscì ad arrivare in cima, poi un altro, poi un altro ancora. Bisognava sentire che applausi e che grida da tutte le parti!

Come erano contenti quei ragazzi, che scendevano carichi dei trofei della vittoria.

Erano polli, salsicciotti, sciarpe colorate, e anche dei borsellini con qualche moneta.

Don Vincenzo, ch'era vicino a noi, e che se la godeva come un bambino, diceva che in questo gioco c'è la sua moralità: prima è un esercizio ginnastico, poi mostra che non si giunge alla meta senza fatica.

 

Più tardi, ci dovevano essere i fuochi d'artifizio; i ragazzi volevano aspettarli, ma la signorina Maria non volle, perchè dice che di notte, in mezzo alla folla, sono pericolosi; una volta essa vide un fanciullo sfigurato, per esser stato colto da un razzo in mezzo alla faccia; dunque non metteva conto per un piccolo divertimento, esporsi ad un pericolo anche lontano, ed ho trovato che aveva ragione.

 

 

     

 

 

Se sapessi che buona ragazza, è la signorina Maria! Ho imparato da lei tante cose, in questi pochi giorni, più che se fossi andata a scuola; essa sa tutto: sa curare gli ammalati, fasciare le ferite, fa dei buoni dolci, e poi ha scritto dei racconti, che ci legge qualche volta, ed è per me una vera festa il sentirli.

Se una buona fata mi domandasse di esprimere un desiderio, ti assicuro che non chiederei, come farebbe l'Elisa, gli equipaggi e i vestiti eleganti della signorina Guerini, nè di essere un famoso pittore, come vorrebbe Mario, o un eroe come Carlo; ma le chiederei di farmi rassomigliare a Maria.

Spero che quando saranno ritornati in città, mi lascerai andar spesso in casa Morandi; sarà il mio più grande divertimento, ed io studierò, e sarò buona per meritarmelo.

Addio, mammina, abbraccia il babbo, e sta sicura che per quanto io mi trovi qui assai bene, pure sono impaziente di abbracciarti.

LA TUA ANGIOLINA.

P.S. Prima di spedirti la lettera ti racconto l'esito della nostra gara.

 

Alla presenza del professore Damiati si diede lettura dei nostri scritti.

Quello di Vittorio, e quello della tua figlia furono giudicati i migliori.

Carlo ed Elisa erano troppo distratti per poter far bene.

Mario mostrò un foglio di disegni che fecero rider tutti.

Rappresentavano il teatro delle scimmie, e le scimmie eravamo noi: Elisa che voleva imitare la signorina Guerini, Carlo il ragazzo Guerini, io la Maria, la Giannina volea imitar me; insomma tutti scimmie, e sopra scrisse: Impressioni della fiera.

Veramente nel programma non c'era un cómpito di disegno, ma si rise e glielo hanno passato per buono.

Mi sono dimenticata nella mia descrizione di parlarti di un ciarlatano che ci fece molto divertire, e siccome Vittorio lo descrisse nel suo componimento, così te lo mando perchè tu ti possa formare un'idea esatta del modo con cui abbiamo passato questi giorni. Addio, e un bel bacio.”

 

RICORDI DELLA FIERA

(dal taccuino di Vittorio)

 

IL CIARLATANO.

 

Dove sono? Chi fu il mago che ha trasformato il mio villaggio? Forse siamo di carnevale? Che frastuono! Che baraonda! Ma è pur bella qualche volta un po' di confusione!

Ed io godo in questi giorni di fiera appunto perchè durano poco.

Mio Dio, che strepito!

- Signorine, vengano a comperare! novantanove centesimi al pezzo, guardino che bella roba.

- Della tela bellissima, dei fazzoletti, tutto a buon mercato; avanti avanti, signori!

- Il teatro delle scimmie, le sette meraviglie del mondo! il cosmorama pittorico! entrino, signori, che resteranno sorpresi! - E simili grida da tutte le parti, tanto che mia sorella ha tutte le ragioni di dire che ha la testa grossa come un pallone.

- Taratatà taratatà, che cos'è questo rumore che viene laggiù dalla strada maestra? Si vede un nuvolo di polvere, s'ode uno scalpitìo di cavalli, tutti tacciono per un momento e si domandano:

- Che cosa sarà?

Le trombe squillano più forte, la massa nera s'avvicina, e già si distinguono quattro cavalli bianchi attaccati ad un cocchio alto e maestoso.

Vengono a gran carriera, son già vicini alla piazza.

- Largo largo, indietro, eh op, eh op.

La folla si restringe, si pigia, e il cocchio passa a mala pena in mezzo a quel mare di teste e s'arresta nel centro della piazza.

Un uomo di mezza età, colla barba brizzolata, d'aspetto abbastanza simpatico, sale sul seggio davanti, il quale è tutto ricoperto di velluto rosso, e si rivolge a tutta quella folla, intenta ad ascoltarlo.

Parla bene, con voce sonora, dice di chiamarsi Rocco Lavarione, d'aver studiato all'università, viaggiato mezzo mondo e conclude che possiede una polvere miracolosa che guarisce tutti i mali, ed invita quella gente a farsi avanti per comprarsela.

Il professore Damiati dice che è uno dei soliti ciarlatani; però io non mi sarei mai figurato un ciarlatano dall'aspetto così rispettabile.

"Venite venite, - intanto egli continua dall'alto del suo cocchio, - io non sono un ciarlatano, quello che dico è la pura verità, comperate la mia polvere, se non avrà la virtù ch'io vi prometto me la renderete, ed io vi restituirò il vostro danaro; posso parlar meglio di così? vedete che non arrischiate nulla."

Tutta quella popolazione, rimasta incerta fino a quel momento, incomincia a scuotersi; già una donna si avvicina, sale sul cocchio e domanda la polvere, che le viene subito data per una lira; un'altra segue il suo esempio; un giovanotto dice di avere un dolore sulla faccia, e Rocco Lavarione gli fa una fregagione colla sua polvere, e poi gli chiede:

- E il dolore non lo sentite più?

Il ragazzo dice di no e se ne va tutto contento.

Incomincia il pigia pigia della gente intorno alla carrozza; tutti stendono le mani per chiedere la polvere miracolosa.

Rocco Lavarione e il suo domestico non hanno braccia bastanti per appagar tutti; le lire piovono nel vassoio, s'accumulano in un momento. E tutta quella gente se ne va contenta col pacchetto di polvere in mano, sorridente come se portasse a casa un tesoro.

 

 

               

 

 

Vicino a noi c'è un gruppo di villeggianti che vorrebbero persuadere quei contadini che è un inganno, ma essi non credono e continuano ad affollarsi intorno al cocchio di Rocco Lavarione.

Se si mette in dubbio l'efficacia di quella polvere essi ci guardano con occhi feroci; e infatti perchè togliere loro la fede e la speranza?

L'idea di possedere un farmaco che guarirà i loro mali, non è già una felicità?

Il professore presso di noi dice che il popolo è come un fanciullo che vuole il meraviglioso.

Al medico del villaggio, che si presenta come qualunque altra persona e che pure ha studiato, non credono, ed invece hanno fede in quell'uomo che parla come un oracolo, dall'alto della sua carrozza.

Io vorrei comperare un pacchetto di polvere per sapere di che cosa è composta, ma mia sorella non vuole; lo fa invece un mio vicino, il quale dal vestito si capisce che non è un contadino.

Al vedere quel signore ben vestito che s'avanza verso Rocco Lavarione, si fanno arditi anche i più timidi; e coloro che se ne stavano incerti, tutti s'avanzano a far ressa intorno al cocchio; i danari piovono, i pacchetti sfumano e Rocco Lavarione sorride contento, e quando vede diradarsi la folla, mette il danaro in un sacco di pelle, fa sferzare i cavalli, e via di corsa, aprendosi un varco in mezzo alla gente che lo segue cogli occhi, mentre egli si dilegua in lontananza, come una visione fantastica. I venditori ricominciano ad offrire la loro merce; si sente la gran cassa richiamare gli spettatori nel teatro delle scimmie, e noi restiamo a discutere se sia permesso approfittare della credulità della gente per intascare danaro come fa Rocco Lavarione.

Taluno dice che non si dovrebbe permettere; altri invece gli danno ragione di far così, finchè vi sono gonzi che si lasciano pigliare. Uno racconta la storia di quell'uomo, e narra che una volta era un povero diavolo che aveva anche studiato per far il dottore, ma non era riuscito a conseguire la laurea, avea cercato un impiego inutilmente e stava quasi per morire di fame, quando gli venne l'idea della sua polvere, che se non ha la virtù che egli le attribuisce, è composta di erbe aromatiche polverizzate e non è nociva.

- Infine ha diritto di vivere anche lui, - soggiunge, - e se la gente si lascia ingannare, suo danno.

In tutta la giornata non si fece che pensare a quello spettacolo, ed io me ne tornai dalla fiera con una grande compassione per tutta quella gente credula, così felice dell'acquisto fatto, e per Rocco Lavarione, che era un ciarlatano per quanto sostenesse di non esserlo, e in quello stesso momento mi pareva di vederlo felice intorno ad una tavola ben guernita, mangiando il suo pranzo, tutto allegro del danaro guadagnato, e mi domandavo se la sua baldoria durerà molto tempo; ma mi persuadevo che durerà fintanto che al mondo vi saranno dei gonzi, cioè ancora per un bel numero d'anni.

 

TOM E FRIDA.

 

Quella sera, dopo che i ragazzi ebbero terminato di leggere i loro componimenti, vollero che Maria leggesse uno dei suoi racconti. Non era giusto che essa non prendesse parte alla gara dei suoi fratelli.

- Già che lo volete, ne leggerò uno volentieri, ed anche d'un argomento che ha qualche analogia coi divertimenti di questi giorni, ma il mio, sarà fuori di concorso.

- In quanto a questo, le decretiamo subito il primo premio, e credo che nessuno se ne lagnerà, - disse il professore Damiati.

- Benissimo! - esclamarono gli altri applaudendo, - ed ora sentiamo questo racconto.

- Ed io rinuncio ad illustrarlo, - disse Mario, - mi sono stancato troppo colla mia composizione.

Maria aveva già cercato nella sua cartella il racconto che avea promesso di leggere ed incominciò.

 

 

                   

 

 

Tom e Frida erano fratello e sorella, e non sapevano in qual modo si fossero trovati a far parte del circo equestre diretto dai signori Harris, nè perchè li chiamassero con quei nomi esotici, essi che erano nati sotto il bel cielo d'Italia.

Tom era maggiore di Frida di quattro anni, e aveva soltanto un vago ricordo della sua infanzia.

Si rammentava, come in sogno, un bel paese illuminato dal sole, dove stava tutto il giorno all'aria aperta, in mezzo al profumo dei fiori, allegro e felice; poi una notte mentre dormiva nel medesimo lettuccio con Frida, si ricordava d'aver sentito tremare la casa, poi un rombo, un grido, e avea visto il palco della camera abbassarsi in modo che poteva toccarlo colle sue manine, e tanti sassi, tanta polvere, da rimanere accecati, poi più nulla.

 

Qualche tempo dopo si era trovato nel circo del signor Harris, assieme ai cani sapienti, alle scimmie ammaestrate ed ai cavalli addestrati all'alta scuola.

Aveva sentito parlare d'esser stato salvato colla sorella quasi per miracolo al tempo del terremoto di Casamicciola, perchè la trave della sua stanza avea formato come un arco sopra il letto, impedendo alle macerie di schiacciarlo assieme alla sorella.

Essendo rimasti soli al mondo, la signora Harris era stata così buona da accoglierli nel suo circo, per educarli all'alta scuola come i suoi cavalli.

Infatti ogni giorno c'erano parecchie ore di lezione. Tom doveva imparare varii esercizii ginnastici, e di equilibrio: poi, fare i salti mortali e montare i cavalli più indomiti.

Egli avrebbe preferito fare qualche altra cosa; ma era agile e forte, e si prestava abbastanza volentieri a quegli esercizii, che imparava colla massima facilità; invece Frida, gracile e delicata, si rifiutava spesso di ubbidire alla signora Harris, e allora erano colpi di frusta che scendevano sulle sue spalle delicate, perchè la padrona voleva adoperare il medesimo sistema colle persone, e coi suoi cavalli.

Tom fremeva quando facevano piangere la sua sorellina, e una volta che le fece scudo colla propria persona s'ebbe una scudisciata così forte, da dover rinunciare alla volontà di difenderla.

 

Essi vivevano uniti, tenendosi abbracciati, o giocando assieme, e quasi estranei a tutto quel mondo di bestie e d'uomini peggiori delle bestie, che viveva intorno a loro. Ogni volta che venivano chiamati per gli esercizii, Frida piangeva, e nascondendo la sua testina sulle spalle del fratello diceva: - Non voglio. -

Egli proponeva di far doppio lavoro, anzi di fare le parti di Frida, purchè la lasciassero in pace; ma la signora Harris diceva che nessuno della compagnia doveva mangiare il pane a tradimento, e se Frida non era buona di lavorare da sè sola, doveva rassegnarsi a fare gli esercizii assieme cogli altri.

La bimba pesava poco, ed era molto utile nelle piramidi umane dove il suo posto doveva esser sempre su in cima; tremava come una foglia dalla paura, quando la signora Harris faceva gli esercizii sul cavallo e la tenea ritta in piedi sulle spalle mentre il cavallo galoppava colla massima celerità.

Mandava allora dei piccoli gridi; credeva di morire, e l'Harris le dava dei pizzicotti nelle gambe per farla tacere.

Soltanto quando faceva qualche esercizio assieme al fratello non si ribellava; egli la prendeva delicatamente, si sdraiava in terra e poi colle gambe in aria, i piedini di lei appoggiati sui suoi, girava intorno come una ruota, e quand'era stanca apriva le braccia, ed essa spiccava un salto e cadeva in grembo a lui con tanta grazia che tutti applaudivano.

- Quando sono con te mi sento sicura, - diceva Frida; - ma quando sono presa da quelle manacce, mi vien freddo e mi par di morire.

 

 

     

 

 

Tom, nella speranza di render i suoi padroni più buoni colla sorella, imparava sempre nuovi giuochi: era riuscito a salire e scendere sopra un piano inclinato, con una gran palla sotto i piedi, a fare il doppio salto mortale sul cavallo in moto, a correre col velocipede sopra un filo di ferro, mostrando una destrezza ed un coraggio straordinarii in un fanciullo di dodici anni; ma queste cose, invece di giovare, recavano danno a Frida, perchè i coniugi Harris, avidi solo di guadagno, diventavano più esigenti colla fanciulla, che volevano seguisse l'esempio del fratello. Ogni giorno le insegnavano qualche nuovo gioco, ed essa piangeva sempre, che era proprio una compassione.

 

Si può dire che gli Harris, i loro quattro figliuoli e Tom e Frida, unitamente a quattro cani, due scimmie e quattro cavalli, formassero il nucleo della compagnia stabile; poi si scritturavano ogni tanto, per qualche sera, degli artisti avventizii, che erano ora qualche fenomeno vivente, ora dei ginnasti famosi, oppure degli animali sapienti.

Una volta si trovavano in una città di provincia dell'Italia settentrionale, quando si unirono a loro due ginnasti, che facevano delle cose meravigliose, restando appesi solo coi piedi a due trapezii collocati in alto sotto alla vôlta del teatro. Erano giuochi da mettere i brividi, pensando al pericolo di una caduta che poteva riuscire pericolosissima, benchè sotto ci fosse una rete per ammortire il colpo.

Quando questi ginnasti, i quali erano marito e moglie, videro Frida, dissero:

- Quanto è leggera! Pare una palla, che bei giuochi si potrebbero fare con questa bimba! -

- Prendetela, - dissero gli Harris, - e fatela lavorare, con noi non fa quasi nulla.

Essi furono contenti, e un giorno la condussero su, in alto, dove c'erano i trapezii; la bimba piangeva, ma la fecero tacere a furia di busse. - Avanti, marmotta, - le dicevano quando essa non voleva salire le scale malsicure, che univano la rete ai trapezii.

Una volta in alto, la donna prese in braccio la bimba e si lasciò cadere colla testa in giù tenendosi coi piedi attaccata al trapezio; il marito dall'altro trapezio nella stessa posizione, aspettava colle braccia aperte, e a quell'altezza incominciarono a gettarsi la bambina come se fosse una palla; essa strillava, ma non le davano retta. Tom era in teatro cogli occhi in alto per non perder nulla di quella scena, e fremeva di sentirsi impotente a liberare la sorella da quel supplizio.

- Va benissimo, - esclamarono gli acrobati, - questa sera faremo il giuoco che sarà di un bellissimo effetto, e tu bada di non piangere, - dissero a Frida, - se apri bocca, guai a te!

Tom pregava che la lasciassero in pace, ma nessuno gli badava, e la sera Frida fu costretta a prender parte ai giochi della coppia volante.

 

Il teatro era pieno di spettatori, le signore tremavano per la povera piccina, quando la videro lassù sotto la vôlta del teatro gettata come una palla; ma era un'emozione mai provata, un gioco nuovo e applaudivano calorosamente, tanto che dovettero ripetere il gioco, e la coppia degli acrobati era trionfante.

Ogni sera, quand'era il momento della rappresentazione, Frida usciva tremante e Tom stava ad osservare tutti i suoi movimenti, non staccando gli occhi da lei, e quando la vedeva scendere, le correva incontro, la prendeva fra le braccia e la portava via.

- Basta, - diceva la bimba piangendo e tutta ansante, - non voglio più, mi fa troppo male.

- Anche a me fa male - diceva Tom - vederti lassù; potessi andar io in tua vece, come sarei contento!

- No, no, non dirlo, vengono le vertigini, par di vedere una buca profonda colla bocca aperta per ingoiarci; è terribile.

 

 

 

 

Una sera tutti erano al solito posto, i due ginnasti salirono le scale di corda trascinandosi dietro Frida che aveva gli occhi pieni di lagrime; aveva detto di non sentirsi bene, di avere un forte mal di capo, ma l'esercizio era annunciato nel programma e bisognava eseguirlo.

I due coniugi incominciarono le loro evoluzioni, mentre la bimba riposava, seduta sopra un trapezio, tenendo in mano una corda.

- Andiamo, a noi, - disse la donna, aprendo le braccia per pigliare Frida.

Essa si lasciò andare, come corpo inerte, e incominciarono il solito gioco, mandandosela da una mano all'altra come una palla, ad un certo punto essa ebbe una specie di vertigine, perdette i sentimenti, sgusciò di mano alla donna e andò a cadere a capo fitto nella rete.

Un gemito partì dal petto della bimba, un altro dagli spettatori, e un grido da Tom, il quale tutto tremante s'arrampicò sulle corde che scendevano dall'alto, e lesto come un gatto andò nella rete, prese fra le braccia Frida e la portò giù.

Essa sentendosi nelle braccia del suo amico aperse gli occhi.

- Ti sei fatta male? - disse Tom.

- Sono tutta stordita, - rispose la fanciulla.

 

Appena fu scesa, il signor Harris le si avvicinò e volle che camminasse.

 - Non posso, - disse Frida.

 - Un momento solo, devi uscire e mostrare che sei viva; - così dicendo la strappò dalle mani di Tom e la spinse in mezzo al circo, dove la piccina fu salutata da un applauso.

Tom li raggiunse con un salto, riprese la sorella fra le braccia, e la condusse via mandando ad Harris un'occhiata feroce.

- Non voglio più fare quell'esercizio, - disse Frida.

- Non temere, appena potrai reggere alla fatica, andremo via, lontano da qui; io farò di tutto piuttosto che sopportare questo supplizio.

- Sì, andiamo presto, - disse la bimba.

- Ancora non sei forte abbastanza.

- Con te posso andare fino alla fine del mondo, non ho paura.

 

Una notte mentre tutti dormivano, Tom e Frida zitti, zitti, uscirono, prima dagli alloggi della compagnia, e poi dalle porte della città, si misero a correre per potersi trovare il giorno dopo molto lontani dai loro aguzzini. Però ad un certo punto Frida rallentò il passo.

- Sei stanca? - disse Tom.

- Non è nulla, andiamo avanti.

Ma venne il momento che la bimba non si sentì più la forza di proseguire.

Tom la prese in braccio, e così fece ancora qualche chilometro, tanto per mettere maggior distanza fra sè e gli Harris.

L'aria della notte e la lunga strada aveva aguzzato il loro appetito e non avevano un soldo in tasca per comprarsi del pane.

Fu quello il primo momento in cui Tom si trovò seriamente impensierito, nel dubbio di aver salvato la sorella da un pericolo, per poi farla morire di fame.

Cominciava appena ad albeggiare, e le strade erano deserte.

- Entriamo qui, - disse Tom trovando una cascina aperta, di quelle che si trovano in mezzo ai boschi e servono ai boscaiuoli per riporvi gli arnesi del lavoro, - quando sarà giorno andremo laggiù dove si vedono quelle case, e domanderemo del pane.

Sdraiati sulla paglia si addormentarono, e si svegliarono quando il sole era già alto sull'orizzonte. Tom incominciò a temere d'essere inseguito dagli Harris, e si mise a correre con Frida attraverso il bosco finchè giunse al villaggio nel pomeriggio.

Avevano fame; ma Tom non ebbe coraggio di chiedere l'elemosina e pensò di guadagnarsi qualche soldo facendo qualcuno dei suoi giochi.

Egli s'era portato in un sacco i suoi arnesi, e là, in mezzo alla piazza sulla nuda terra incominciò a far salti, capriole, giocò con delle palle e dei piatti, tanto per divertire quella gente, mentre si sentiva stanco e affranto dalla fatica. Guadagnò qualche soldo che valse a fargli proseguire la via e continuò così per parecchi giorni, conducendo la sua sorellina, soffermandosi quand'era stanca, facendo i suoi giochi quando aveva fame, e temendo sempre d'essere scoperto ed inseguito dagli Harris.

 

 

                             

 

 

Un giorno lesse nei giornali che gli Harris offrivano un premio a chi scoprisse il luogo dove dovevano esser nascosti due ginnasti della compagnia, che erano fuggiti rubando degli attrezzi di proprietà dei signori Harris.

Tom si sentì i brividi al leggere quelle parole, e come gli facessero una colpa d'aver portato con sè gli attrezzi ch'egli adoperava sempre, e che avea pagati cento volte col suo lavoro; e lo colse tanta paura d'essere preso, che da quel momento pensò di andare lontano, lontano, dove non sentisse mai più parlare degli Harris, che gli avevano fatto tanto male.

Incominciò a camminare giorno e notte senza fermarsi; quando Frida era stanca la prendeva in braccio e continuava il suo cammino guardandosi indietro nel timore d'essere inseguito. Se incontrava qualche carro per via, supplicava che gli permettessero di salirvi per fare un tratto di strada assieme alla sorella; diceva che doveva andar lontano lontano, e che la bimba era stanca e ammalata.

Essa era pallida, gracile, ma non parlava mai, contenta di appoggiarsi solamente sopra suo fratello, e di non far più quegli esercizii che le incutevano tanta paura.

 

Un giorno arrivarono in una bella città in riva al mare, dove c'erano tanti bastimenti pronti per la partenza.

Il primo pensiero di Tom fu d'imbarcarsi sopra uno di quei bastimenti e andare in un paese lontano, dove gli Harris non l'avrebbero potuto raggiungere.

Ma non aveva danari; poi, sopra un bastimento non avrebbero accolto tanto facilmente due piccoli vagabondi, come qualche volta s'erano sentiti chiamare andando per i villaggi, e infatti coi loro vestiti sbrindellati, colla faccia pallida, ne avevano tutta l'apparenza.

Tom, deciso d'imbarcarsi ad ogni costo, pensò ad uno stratagemma.

Sull'imbrunire, mentre una folla d'emigranti caricava la propria roba sopra il bastimento, s'offerse di aiutare a trasportare i bagagli.

Era forte, alzava dei pesi enormi per la sua corporatura; venne accettato. Così incominciò ad andare avanti e indietro in mezzo a quel via vai di gente e di facchini, finchè s'accorse che s'erano abituati a vederlo e non badavano più a lui.

Allora prese per mano Frida, e la condusse sul bastimento, e scesero giù per una scala erta e stretta finchè entrarono in un bugigattolo nascosto, buio, dove non c'era pericolo che nessuno li potesse scoprire.

- Ed ora, zitti, - disse Tom, - non dobbiamo muoverci finchè il bastimento non è in moto.

Frida aveva paura in quel bugigattolo che pareva una tomba e stava vicina al fratello, facendosi piccina e rannicchiandosi come un uccello spaurito.

Stettero così delle ore, che parvero interminabili, quando udirono prima un gran movimento, poi un rumore, e finalmente si sentirono trasportare lontani con delle scosse che li facevan traballare nel loro antro.

- Usciamo, - disse Frida, - ho paura.

Ma Tom non osava uscire; all'idea che il suo stratagemma venisse scoperto gli batteva il cuore dalla trepidazione.

E intanto il bastimento andava, andava a tutto vapore; dovevano esser lontani dal porto; ma Tom non osava uscire.

 

 

                             

 

 

Tutto ad un tratto videro un'ombra nera, entrare nel loro bugigattolo: era un marinaio venuto a prendere del carbone; il quale quando vide muovere qualche cosa, accese un lanternino e - Che cosa fate qui, piccoli vagabondi? - chiese vedendo i due fanciulli che tremavano come una foglia.

- Pietà, - disse Tom, - non abbiamo fatto nulla di male, ho voluto fuggire i miei padroni, che mi maltrattavano.

- Intanto uscite di qui, - disse il marinaio, - e sentiremo che cosa ne penserà il capitano.

Quando i ragazzi furono alla presenza del capitano, Tom raccontò la sua storia, e dichiarò che avrebbe fatto qualunque servizio, anche il più umile, per guadagnare il vitto per sè e per Frida.

- Vedrà, sarà contento di me, - disse il ragazzo coll'accento della sincerità.

Il capitano si lasciò commuovere da quelle parole e disse:

- Basta, vedremo; se vi condurrete bene, vi perdonerò la vostra scappatella, altrimenti appena arriviamo in America, vi farò mettere in prigione.

Ma Tom era buono, ubbidiente e servizievole; tutto il giorno in piedi, non si stancava di correre, e rendersi utile. Egli s'arrampicava come uno scoiattolo sugli alberi del bastimento, scendeva le scale colla massima rapidità, e stava ritto in piedi, anche quando il mare era agitato, e i più esperti marinai traballavano e perdevano l'equilibrio; non era un ginnasta per nulla.

Il capitano si affezionò a quel fanciullo così docile e laborioso, e gli propose di restar con lui e di fare il marinaio.

Il mare era sempre stato il sogno di Tom, e a quella proposta egli si sentì battere il cuore dalla gioia, tanto che si sarebbe sentito una voglia prepotente di abbracciare il capitano.

- Essere marinaio! - pensava, - viaggiare, vedere paesi nuovi, fare un mestiere nobile, vestire una divisa onorata, invece della maglia del saltimbanco, servire il proprio paese, invece di avvilirsi a fare il giocoliere e divertire una folla che l'avrebbe sprezzato; questa era la felicità, la riabilitazione, ed esclamò: - Ma dice davvero?

- Sì, sì, davvero.

- E Frida potrà stare con me?

- Questo no, non è possibile.

Tom stette un poco a pensare, diede un'occhiata alla sorella che gli era vicina, e lo guardava in aria supplichevole, e rispose:

- Grazie, capitano, la sua proposta mi fa tanto piacere, ma non posso accettarla.

- E perchè?

- Non posso abbandonare la mia sorellina.

- E che cosa farai quando sarai arrivato?

- Mi farò scritturare in qualche circo equestre, e ritornerò alla vita del saltimbanco: è il mio destino.

Sì dicendo prese fra le braccia Frida, e scappò via; aveva un nodo alla gola, temeva di pentirsi, di lasciarsi tentare ad accettare fa proposta del capitano, e non voleva, no, non voleva abbandonare la sua Frida.

La bimba, ormai sicura che Tom non l'avrebbe lasciata, gli cingeva il collo colle sue piccole braccia; batteva le mani dalla contentezza ed era felice. Essa però non poteva comprendere la lotta che avea dovuto sopportare il di lui nobile cuore; nè il grande sacrificio che aveva fatto per lei.   [.....]