ALLA FIERA DELLA PAURA
di William Somerset MAUGHAM
( da “Il Mago” – Newton Compton Editori )
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(…..) La fiera era in pieno fervore. Il rumore era assordante. Strumenti a vapore tuonavano le melodie popolari più in voga, e le giostre giravano al ritmo della musica. All'ingresso dei baracconi alcuni uomini invitavano rumorosamente i passanti a entrare. Dai banchi del tiro a segno arrivava il crepitio continuo dei fucili-giocattolo. I rumori erano tenuti insieme dalle voci della folla che, gomito a gomito, fluiva lungo il viale centrale, e dallo stropiccio di una miriade di piedi. La notte era vivacemente illuminata da torce ad acetilene, che fiammeggiavano con ruggito sordo e continuo. Era uno spettacolo strano, tra il sordido e l'allegro. La folla sembrava spinta all'allegria da una sorta di spirito selvaggio, come se, stanca del penoso affanno quotidiano, cercasse con uno sforzo disperato di divertirsi.
Il gruppetto di inglesi con il dottor Porhoët, lievemente ironico, era appena entrato quando Oliver Haddo li raggiunse. Costui non teneva in alcun conto quel che pure era evidente, ovvero che gli altri non desideravano la sua compagnia. Attirava l'attenzione, per l'originalità del suo aspetto e dei suoi modi, e Susie notò che godeva nel vedere la gente indicarlo a dito. Indossava un mantello spagnolo, la capa, e drappeggiava con noncuranza sulla spalla la fodera di velluto rosso e verde. Portava un cappello ampio e floscio. La sua altezza era notevole, pur se resa meno evidente dall'obesità, e torreggiava su quella misera moltitudine. Essi osservavano pigramente i vari spettacoli, resistendo ai melodrammi, ai circhi, alle esibizioni eccentriche che cercavano rumorosamente di attirare spettatori. In quel momento giunsero vicini a un uomo che stava incidendo dei profili su carta nera, e Haddo volle a tutti i costi posare per lui. Una piccola folla gli si radunò attorno, e non gli vennero risparmiate battute sul suo aspetto singolare. Egli si abbandonò alla sua posa preferita, orgogliosa e imperiosa. Margaret sperava di poter cogliere l'occasione per lasciarlo, ma la signorina Boyd insistette per restare. «E la creatura più ridicola che abbia mai visto in vita mia», sussurrò. «Non rinuncerei a osservarlo per nulla al mondo.» Quando il profilo fu ultimato, egli lo offrì a Margaret, con un profondo inchino. «La scongiuro di voler accettare l'unico ritratto esistente di Oliver Haddo», disse. «Grazie», rispose lei, freddamente. Non aveva alcun desiderio di prenderlo, ma non ebbe la presenza di spirito di rifiutarlo scherzosamente, e non le garbava d'essere apertamente brusca. Come se fosse sicuro dell'apprezzamento di lei, Haddo lo ripose con cura in una busta.
Ripresero a camminare, e d'un tratto arrivarono a un tendone sul quale c'era un nome orientale. Sulla tela era dipinta rozzamente l'immagine di un arabo che incantava i serpenti, e sopra alcune parole in arabo. All'entrata, un nativo sedeva a gambe incrociate, percuotendo senza sosta un tamburo. Quando li vide si interruppe, rivolgendo loro la parola in pessimo francese. «Questo non le rammenta il torbido Nilo, dottor Porhoet?», disse Haddo. «Entriamo a vedere cos'hanno da mostrarci.»
Il dottor Porhoet fece un passo avanti, e si rivolse all'incantatore, che si illuminò tutto nel sentire la lingua del suo paese. «E un egiziano, di Assiut.» «Comprerò i biglietti per tutti», disse Haddo. Tenne sollevata la tenda, per consentire l'accesso al baraccone, e Susie entrò. Margaret e Arthur Burdon, benché controvoglia, si trovarono costretti a seguirla. L'indigeno richiuse la tenda alle loro spalle. Si ritrovarono in un luogo piccolo e sporco, mal illuminato da due lampade fumose. Una dozzina di sgabelli erano piazzati in circolo sulla nuda terra. In un angolo sedeva una donna fellah, immobile, con ampie vesti color nero opaco. Il suo volto era nascosto da un lungo velo, fermato da uno strano ornamento d'ottone sulla fronte, in mezzo agli occhi. Questi erano l'unica parte visibile di lei, grandi, neri, con le ciglia scurite dal khol. Le dita erano vivacemente colorate con l'henné. Si mosse appena quando i visitatori entrarono, e l'uomo le affidò il suo tamburo. La donna cominciò a strofinarlo con le mani, con un movimento particolare, producendo un suono simile a un ronzio, strano e misterioso. C'era un odore insolito in quel luogo, tanto che il dottor Porhoet, per un attimo, fu come trasportato nelle strade maleodoranti del Cairo. Era una mistura acre di incenso, di profumo di petali di rosa, insieme a ogni immaginabile putredine. Le due donne ne furono soffocate, e Susie chiese una sigaretta. L'indigeno fece una smorfia quando sentì parlare inglese. Mise in mostra una fila di denti, belli e scintillanti. «Mio nome Mohammed», disse. «Io mostrare serpenti a Sirdar Lord Kitchener. Voi aspettare e vedere. Serpenti molto velenosi.» Indossava un lungo abito di cotone azzurro, più adatto alle banchine assolate del Nilo che a una fiera di Parigi, e il colore si intuiva a stento sotto lo sporco. In testa portava il copricapo nazionale, di feltro. Da un lato della tenda era steso un tappeto, e da lì sotto tirò fuori una sacca di pelle di capra. La posò in mezzo al cerchio formato dagli sgabelli, e si accucciò a sua volta. Margaret tremò, perché la superficie ruvida del sacco si muoveva in modo strano. Egli ne aprì l'imboccatura. La donna nell'angolo continuava a percuotere incessantemente il tamburo, e di tanto in tanto emetteva un grido barbaro. Con un lampeggiare sinistro dei denti luminosi, l'arabo infilò la mano nel sacco, e vi frugò come fosse un sacco di grano. Ne estrasse un serpente, lungo, che si contorceva. Lo posò a terra, rimase in attesa per un attimo, poi gli sfiorò il dorso con la mano. Immediatamente il serpente si fece rigido come una spranga di ferro, e se non fosse stato per gli occhi, quegli occhi crudeli, che erano ancora aperti, si sarebbe detto che in lui non c'era più vita. «Osservate», disse Haddo, «ecco il miracolo compiuto da Mosè alla presenza del Faraone.» Poi l'arabo prese uno strumento a canna, non troppo diverso dal piffero che Pan suonava per le driadi sui colli di Grecia. Intonò una nenia monotona, misteriosa. D'improvviso, la rigidità abbandonò il serpente, che sollevò la testa, e si allungò tutto, fin quasi a tenersi solo sulla punta della coda, ondeggiando avanti e indietro.
(…..) La stanza era arredata come le altre, ma ai vari strumenti di grandi dimensioni per gli esperimenti chimici, si aggiungeva ogni genere di apparecchiature elettriche. Qua e là c'erano dei libri, e uno era rimasto aperto e rovesciato sul bordo di un tavolo. Ma quel che attrasse immediatamente la loro attenzione era una fila di grandi recipienti, come quelli visti nella stanza attigua. Erano tutti coperti da un telo bianco. Esitarono per un momento, poiché sapevano di essere in presenza del grande enigma. Alla fine Arthur scoprì un recipiente. Nessuno parlò. Guardarono con occhi stupiti. Anche qui c'era una strana massa di carne, grande quasi quanto un bambino appena nato, e con l'abbozzo di qualcosa di orrendamente umano. Aveva vagamente la forma di un neonato, ma le gambe erano unite l'una all'altra, tanto che pareva una mummia avvolta nelle bende. Non c'erano né piedi né ginocchia. Il tronco era informe, ma su entrambi i lati c'era una strana sporgenza; era come se uno scultore avesse voluto fare una figura con le braccia discoste, ma essendo il lavoro incompiuto queste fossero ancora saldate al corpo. C'era qualcosa che somigliava a una testa umana, coperta di lunghi capelli d'oro, ma era orribile; era una massa informe, senza occhi, né naso né bocca. Il colore era un rosa pallido, quasi trasparente. Si percepiva un movimento lievissimo, lento e ritmico. Anche quella cosa era viva.
Allora Arthur rimosse velocemente i teli che coprivano tutti gli altri recipienti, tranne uno; e in un batter di ciglia videro cose talmente abominevoli, orrende, che Susie dovette stringere i pugni per non urlare. C'era una cosa mostruosa le cui membra erano quasi umane. Era come una massa, con piccole braccia grasse, gambette gonfie, e un corpo rannicchiato in una posa assurda, come un mandarino cinese di porcellana. Un'altra aveva il tronco simile a quello di un bambino, ma stranamente cosparso di macchie rosse e grigie. Ma la cosa orrenda era che al punto del collo si divideva in due, e c'erano due teste separate, mostruosamente grandi, ma perfettamente delineate. I tratti erano la caricatura di un essere umano, talmente orridi che quasi non si riusciva a guardarli. Quando la luce li colpì, gli occhi di ciascuna testa si aprirono lentamente. Erano privi di pigmentazione, rosa come quelli dei conigli bianchi; e per un attimo li fissarono con uno sguardo strano, cieco. Poi si richiusero, ed era terrificante vedere che i loro movimenti non erano simultanei; le palpebre di una testa si chiudevano lentamente, un po' prima di quelle dell'altra. E in un altro recipiente c'era un mostro orrendo, fatto di due corpi orribilmente avviluppati. Era una creatura d'incubo, con quattro braccia e quattro gambe, e si muoveva davvero. Strisciava con moto strano sul fondo del grande recipiente in cui era racchiusa, verso le tre persone che la fissavano. Pareva chiedersi cosa stessero facendo. Susie fece un salto indietro, impaurita, mentre quell'essere si sollevava sulle quattro gambe, cercando di arrivare fino a loro.
Susie si voltò e nascose il volto. Non riusciva a guardare quelle spaventose contraffazioni di umanità. Era terrorizzata, umiliata. «Ed è per questi immondi mostri che Margaret è stata sacrificata, e con lei la sua bellezza?» I due uomini si guardarono, con occhi tristi, pieni di domande. «Non ricordi che aveva parlato della fabbricazione di esseri umani? Ecco cosa è riuscito a produrre, queste cose deformi», disse il dottore. «Ce n'è un'altra che non abbiamo visto», disse Arthur. Indicò la copertura che ancora nascondeva il recipiente più grande. Aveva la sensazione che contenesse il più spaventoso di quei mostri; e non senza sforzo tirò via il telo. L'aveva appena fatto che qualcosa saltò su, ed egli istintivamente fece un balzo indietro; quella cosa cominciò a farfugliare con tono penetrante. Erano questi i suoni disumani che avevano udito. Non era una voce, era una specie di grido roco, aspro e acuto, mutevole come l'abbaiare di un cane, e terrificante. I suoni uscivano in rapida successione, rabbiosi, come se l'essere che li emetteva cercasse di esprimersi con parole furiose. Sembrava in preda al delirio e batteva a pugni chiusi contro le pareti di vetro della sua prigione. Le sue, infatti, erano mani umane, e il corpo, benché assai più grande, aveva la forma di quello di un bambino appena nato. La creatura doveva essere alta circa un metro e venti. La testa era orribilmente deforme. Il cranio era enorme, liscio, teso come quello di un idrocefalo, e la fronte era spaventosamente sporgente. I tratti erano appena accennati, disumanamente piccoli sotto quella fronte enorme e sporgente; e gli davano un'aria di demoniaca malvagità. Quella fisionomia piccola e deforme si contorceva con furia convulsa, e dalla bocca usciva una bava schiumante. Alzava sempre più la voce, urlando nella sua rabbia farfugliamenti privi di senso. Poi, come impazzito, cominciò a scagliarsi con tutto il corpo contro le pareti di vetro e a sbattere la testa. Sembrava che d'improvviso fosse stato invaso da un odio inspiegabile verso quegli estranei. Cercava di scagliarsi contro di loro. Le gengive, prive di denti, si muovevano spasmodicamente, e il volto s'atteggiava a smorfie orribili. Quell'aborto senza nome, repellente, era quanto di più vicino a una forma umana Oliver Haddo fosse riuscito a creare. «Venite via», disse Arthur. «Non dobbiamo guardarlo.» S'affrettò a ricoprire il contenitore. «Sì, per l'amor di Dio, andiamo via», disse Susie. «Ancora non abbiamo finito», rispose Arthur. «Non abbiamo trovato l'autore di tutto questo.»
Guardò la stanza nella quale si trovavano, ma non c'era altra porta oltre quella da cui erano entrati. Poi emise un grido improvviso, fece un passo avanti e crollò sulle ginocchia. Dall'altro capo dei lunghi tavoli ricoperti di strumenti, nascosto, tanto che in un primo momento non lo avevano visto, disteso sul pavimento c'era Oliver Haddo, morto. I suoi occhi azzurri erano spalancati, e sembravano più grandi che mai. Avevano ancora l'espressione di terrore dell'attimo dell'agonia, e il volto pesante era stravolto da una paura mortale. Era paonazzo, scuro, con gli occhi iniettati di sangue. «E morto soffocato», sussurrò il dottor Porhoet. (…..) |
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