IL CIARLATANO

 

di Arturo FRIZZI

 

( Collana “Il Gallo” - EDIZIONI AVANTI ! MILANO )

 

 

 

 

Introduzione di Sergio Borelli

 

Arturo Frizzi, «il ciarlatano» (perché è di se stesso che parla in questo libro), ebbe una vita intensa e ricca di esperienze. Nacque a Mantova nel 1864 e si spense a Cremona nel 1940, ma la piccola distanza tra le due città e quella più grande tra i due estremi della sua vita, le percorse su un itinerario capriccioso che si stende su quasi tutta l'Europa. Passò più della metà dei suoi 76 anni, all'aria aperta, sulle piazze d'Italia. L'espressione «sulle piazze» va presa alla lettera perché la sua occupazione consisteva nell'andare di paese in paese, di mercato in mercato a imbonire la folla e a vendere la sua merce. La sua licenza di ambulante, che ho qui sotto gli occhi, si arricchisce dei timbri di centinaia di comuni. Ne apro una pagina a caso. « Si permette per tre giorni - c'è scritto con calligrafia burocratica - Borgo Valsugana, 12 luglio 1896 ». « Visto si permette fino a domènica 19 c. m. Dal Municipio di Rovereto, 15 luglio 1896 ». « Visto si concede il posteggio su questa piazza per tre giorni. Dal Civico Municipio della Città di Riva, 11 agosto 1896 ».

 

 

                                             

 

 

Cosa si permetteva al Frizzi? Di vendere temperini, catene, pattine e pietre galvanizzate. Era nella definizione burocratica un «fierante con mercerie». Inoltre il Frizzi «strillava» i giornali per conto di questo o di quel raggruppamento politico, o per conto proprio, e allora potevano essere vecchi di mesi e anche di anni. Vendeva i suoi libri e i suoi opuscoli, le sue raccolte di canzoni popolari. Vendeva l'alfabeto delle donne, per esempio, che cominciava: « Chi disse donna disse danno. Chi disse donne disse malanno. Dio li creò, ci vuol pazienza, dell'uomo sei la penitenza. E sarebbe una gran fortuna se di donne sagge su mille ce ne fosse una... », e cosi via.

Oppure distribuiva il suo Passaporto della leggera, che è riprodotto nel libro. Oppure cantava “Il lamento del Passanante” o la canzone di Torototella, accompagnandosi con una ocarina che azionava mediante una pompetta invece di portarla alla bocca.

 

 

 

 

 

Ma quello che gli era permesso dalle autorità non coincideva sempre con quello che si permetteva di fare da sé. Perché, per sua stessa confessione, il buon Arturo era un solenne imbroglione. Le sue pillole per il mal di denti erano, scusate, pallette di sterco di capra. O portava con sé una donna dicendo che era una sonnambula e le faceva indovinare il futuro dei presenti, suggerendole cosa doveva dire nel gergo dei girovaghi. Alcuni termini di questo linguaggio furbesco li ha raccolti in una specie di dizionario, che si trova pure alla fine di questo libro. Per richiamare l'attenzione vestiva costumi impossibili, cilindri, frack colorati. Insomma il suo motto era quello dell'autentico ciarlatano:

 

Con l'arte e con l'inganno vivrò mezzo l'anno;

con l'inganno e con l'arte vivrò l'altra parte.

 

Frizzi era una personalità piena di colore e di fantasia, e un gran maestro della pubblicità. Grossolano forse, e i suoi frizzi (si firmava spesso «Arturo coi suoi Frizzi») non erano del miglior gusto. Ma sempre a contatto con il suo pubblico, sempre figura centrale del mercato o della fiera durante i quali si esibiva. Negli ultimi anni della sua vita si mise a vendere libri, monete antiche e oggetti d'arte, stabilendosi a Cremona. Ebbe una bancarella sotto il voltone di via Antico Rodano prima, e in piazza Cavour poi. Era ormai quasi cieco e, anche se non aveva perduto il buon umore e la forza espansiva della sua personalità, non poteva più girare il mondo come un tempo. A richiesta recitava versi burleschi anche di genere molto spinto.

 

 

 

 

 

Una parte importante nella vita del Frizzi l'ebbe la politica. Alla politica arrivò attraverso lo strillonaggio dei giornali. Si era fatto un vestito bianco con impresse le testate di tutti i giornali italiani, che portava per richiamare l'attenzione. Ricorda che aveva La Lega della Democrazia sul petto e La Voce della Verità, organo del Vaticano, su quella che lui chiama « la parte centrale del settentrione ». Nel giornaletto umoristico “Al Brustolin”, che pubblicò per un certo periodo di tempo a Mantova, si legge, sotto la rubrica “Mandorle salate” questa tiritera antigovernativa:

 

Chi paga i chiodi? Il popolo.

Chi fa i chiodi? Il governo.

Chi conosce i suoi diritti? Il popolo.

Chi fa tutto a rovescio? Il governo.

Chi si batte per gli altri? Il popolo.

Chi è che lo picchia? Il governo.

 

E cosi via per mezza colonna di stampa. Politica abbastanza superficiale, questa, e influenzata da una forma di qualunquismo di piazza, ma sempre in una direzione genericamente progressista. Queste opinioni personali non gli impedivano peraltro di prestarsi, dietro compenso, a fare il galoppino liberale-monarchico a Bozzolo o di vendere giornali reazionari. Ma man mano che la sua coscienza si raffinava si dedicò sempre di più alla propaganda progressista. Fu diffusore e corrispondente dell'appena fondato Messaggero, giornale democratico al quale collaborava Andrea Costa. Distribuì “L'Italia” del repubblicano Dario Papa. E prestò la sua opera gratuitamente per “Il Pane” di Padova, diretto dall'ex tipografo Auriele Cavagnari. Nel 1898 si diede anima e corpo alla diffusione dell' “Avanti!” di Roma.

 

La sua incertezza di idee nell'ambito della sinistra erano tipiche dell'epoca. All'alternativa di Destra Storica e di Sinistra, di cavourriani e di mazziniani, era succeduta la vittoria della Sinistra di Depretis e del suo programma riformista di Stradella; allo squagliamento della Sinistra, poi, il periodo del trasformismo, il trionfo delle clientele locali e dei piccoli ras dei vari collegi che trasformavano le proprie opinioni politiche per restare sempre a galla. Parecchi di questi ras locali Frizzi servì con la sua propaganda e con crescente e confessato disgusto.

Il trasformismo, l'insoddisfazione nei riguardi della Sinistra, l'allargamento del suffragio a due milioni di elettori nel 1882 finirono col far coagulare più a sinistra della Sinistra le forze progressiste. E con il suffragio universale come programma, radicali come Cavallotti, repubblicani come Giovanni Bovio e socialisti come Andrea Costa costituirono l'Estrema Sinistra.

 

 

 

 

 

A questo confuso mondo progressista senti di appartenere anche il Frizzi. Confuso ma convinto, tanto che nel 1894 ad Arezzo, lo vediamo prendere a pugni un tale che aveva osato chiamare « quei maiali» i contadini dei Fasci siciliani. Per questo gesto, assolutamente insolito per un ciarlatano che vive « con l'arte e con l'inganno », fu immediatamente arrestato come un « pericoloso anarchico », ma subito dopo rilasciato perché riconosciuto un « innocuo socialista ». E il socialismo fu il suo punto di arrivo, anche se quando chiese molto umilmente la tessera a Leonida Bissolati si senti rispondere: « Sta un po' sotto aceto per tre anni e poi vedremo ». Stette sotto aceto e non solo ebbe la tessera, ma finì con l'essere due volte candidato (trombato) alle elezioni: a Ivrea nel 1904 e a Mantova nel 1909. La seconda volta come candidato popolare indipendente perché in rotta con Enrico Ferri.

 

Frizzi sentì molto acutamente il problema morale che la sua iscrizione al Partito socialista poneva a un uomo con il suo passato, anzi con il suo presente perché non poté smettere la sua professione di ciarlatano e di girovago. In fondo queste sue memorie, che furono pubblicate per la prima volta in appendice al “Sempre Avanti!” di Torino nel 1902, furono scritte proprio nello spirito di un esame di coscienza: « Narro la mia storia per rendere onore alla fede socialista che mi ha redento ». Purtroppo, come sanno anche gli apologeti della Chiesa cattolica, è molto più facile e attraente dipingere il male che il bene. Il retto vivere sembra a prima vista molto grigio e molto poco ricco di avventure. È refrattario alla narrativa. Tuttavia questa specie di pubblica confessione dei suoi peccati Frizzi la faceva con l'animo del penitente e con lo scopo di rivelare i segreti e le miserie della sua professione di girovago. Professione che era un po' una massoneria, ai cui misteri la pubblicità ha sempre nociuto.

 

Il socialismo, uscito così puro dalla Sala Sivori nel 1892, riuniva le forze più morali del paese, oltre ai contadini di Prampolini e di Badaloni e agli intellettuali di Turati e di Treves. Era questa sua purezza quasi messianica che gli faceva fare breccia nelle masse. Riorganizzerà i problemi in senso nazionale, rimetterà presto ordine nello schieramento parlamentare, bonificherà la vita politica sostituendo i problemi ai personalismi.

È significativo che anche un uomo come il Frizzi ne sentisse l'influenza moralizzatrice che trovava rispondenza in fondo alla sua coscienza in alcuni sentimenti che non aveva mai completamente perduti, ma che erano solo addormentati. Ci tenne moltissimo a far precedere il suo libro da due dichiarazioni di fede: “Perché mi inserissi al Partito socialista” e “Che imparai ad essere socialista” che sono riprodotte in appendice a questo volume. Il senso di queste sue dichiarazioni è che il socialismo, di ciarlatano che era, lo aveva fatto uomo. Purtroppo questa sua evoluzione non è realizzata in forma narrativa nel racconto della sua vita. E in ciò sta, non tanto il difetto, quanto il limite dei pregi di questo libro.

 

 

 

 

 

Apparso nel 1902 e ristampato più volte “II Ciarlatano” ha divertito e interessato una generazione. Quando abbiamo detto che volevamo ristamparlo e farlo conoscere a un pubblico ancora più vasto e più giovane, i nostri interlocutori, vecchi socialisti e appartenenti alla classe operaia, si sono dimostrati entusiasti.

Ci sembra che con la loro evidente grossolanità e incontrollata vitalità le memorie del Frizzi siano ancora attuali dopo mezzo secolo e tanta esperienza letteraria. Elementari e limitate come sono restano ancora vive. Perché è ancora vivo il problema morale che sta alla base della narrazione del Ciarlatano. Guardiamoci intorno. Il neo realismo, specialmente per merito del cinema, ha concentrato l'interesse di tutti su alcuni aspetti della vita che, per convenzione, si chiamano minori. Una forma di populismo è diventata di moda. Ma non siamo ancora giunti nemmeno alla periferia di una manifestazione nuova di letteratura popolare. Il realismo non è un modo di scrivere, è un modo di vivere. Non è parlare di vicoli o di povera gente. È parlare nei vicoli alla povera gente. E non inganniamo noi stessi: oggi abitiamo tutti nei vicoli, siamo tutti povera gente. Il resto è letteratura.

 

Pensiamo agli incassi di alcuni film neo realisti, quelli che il pubblico da 600 lire definisce « denigratori e lesivi dell'onore nazionale ». Le statistiche provano che il pubblico da 150 lire li preferisce ai film appositamente fabbricati per farlo evadere per due ore dalla tensione nervosa dell'officina o dell'ufficio. Perché li vanno a vedere? Perché li capiscono? Perché si sentono da essi capiti; perché si sentono parti in causa.

 

 

 

 

 

Non è forse il problema numero uno dello scrittore realista quello di capire la realtà delle cose che ci circondano, il perché e il come? Di mettere in piano italiano il senso della nostra vita di ogni giorno, i nostri desideri incompiuti, le nostre speranze irrealizzate, la nostra volontà di riuscire a tutti i costi ad essere noi stessi? Di realizzarci nel nostro lavoro vincendo le oppressioni cui siamo sottoposti dall'ambiente contro i quale siamo in lotta continua? La nostra ansia di non essere soli? La nostra gioia di ritrovarci fratelli, amici tra amici e non lupi tra lupi? Il realismo non è solo denuncia è anche gioia piena e cordiale. Coloro che lo trovano triviale sono quelli che fondano il proprio benessere sulla continuazione delle attuali condizioni della nostra vita. Preferirebbero che le letture popolari si limitassero ai fumetti e agli spettacoli popolari al cinema di evasione.

 

Questa è nelle sue luci e nelle sue ombre la realtà a cui voglio riferirmi. E una constatazione che discende logicamente da questa è che la riprova di averla compresa è l'essere compresi. Parlare della realtà del nostro tempo e essere capiti dai più, questa è letteratura popolare. Posso permettermi di dire che questa è letteratura, letteratura senza aggettivi? Ecco perchè sono penosi e inutili gli sforzi di molti letterati per essere popolari. Il presupposto per essere capiti e letti è di parlare di cose pertinenti alla nostra condizione di uomini che non accettano l'ingiustizia né intorno a sé né tanto meno dentro di sé.

 

 

 

 

 

Solo chi si interessa a questo aspetto della vita, che è il solo vero oggi, potrà emanare la cordialità necessaria a procurarsi dei lettori. Per questo ho detto che “Il Ciarlatano” è ancora oggi un libro vero e un libro popolare. Il problema morale del Frizzi, il suo sforzo per non soccombere alle circostanze e agli istinti che lo volevano truffatore e gabbamondo, per liberarsi « dall'arte e dall'inganno » allo scopo di essere più uomo, è l'immagine del nostro problema morale.

Chi non soffre del residuo di ciarlataneria che tinge la nostra vita non ha ancora cominciato a essere uomo. I nostri compromessi per procurarci protezione e denaro e le nostre debolezze per una vita sicura e confortevole hanno molto in comune con le necessità che condizionarono la sua vita di ciarlatano. La storia che egli ci racconta di un ciarlatano che si fa uomo, ci tocca molto più da vicino di quanto non possa sembrare a prima vista.