IL NARRATORE ATTRAVERSO IL TEMPO E LO SPAZIO
Riflettendo sulla figura del cantore
di Massimo J. MONACO
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Non so più da quanti anni racconto storie. Non so neppure come e perché ho iniziato. Ma forse questo non è importante, anche se scoprire da dove e perché scaturisca il bisogno di raccontare sia un argomento affascinante per un narratore di professione. Come tutti, credo di aver iniziato amando le fiabe ma, crescendo, cominciai ad annoiarmi che quelle storie finissero sempre bene. Le fiabe sono una rappresentazione metaforica della vita, ma la vita, non metaforicamente, non ha sempre un lieto fine. Forse per questo motivo iniziai a guardare la vita come a un gran libro di storie dove attingere cose da raccontare.
A questo punto mi esce spontanea l’affermazione che la realtà, la vita, è molto più incredibile, fantasiosa e spesso terribile di qualsiasi fiaba. Qualcuno potrebbe dire “lapalissiano” ed avrebbe ragione ma solo nel senso dell’uovo di Colombo. Infatti, sono certo che questo lo si scopre solo se si è capaci di osservare e raccontare la vita. È la gran fortuna degli artisti vivere, guardare, vedere la vita e poterla raccontare in molteplici forme. “Non cantata, anche l’azione più nobile e luminosa morirà”. È il frammento d’una citazione di Pindaro. A pensarci bene, proprio a questo servivano gli aèdi: a cantare le storie per farle rivivere e ricordare attraverso i tempi. Ringraziamo dunque Omero e tutti gli omeridi dalle cui scuole uscirono e si perpetuarono schiere di cantori. Ringraziamo quindi anche quella lunga dinastia di cantori, detti oggi cantastorie, che hanno permesso e permettono a molte storie umane, di attraversare il tempo e lo spazio per giungere fino a oggi. Senza di loro quanto sarebbe più povera la nostra vita.
Oggi viviamo nell’epoca dell’informazione a flusso continuo. Abbiamo archivi e biblioteche di facile accesso e ci muoviamo nella dimensione di una fruibilità a partecipazione passiva. E’ notevolmente aumentata la disponibilità delle risposte ma ci sono sempre meno domande e questo avviene, così credo, perché è richiesta sempre meno fatica di azione e pensiero e così, non ci rendiamo veramente conto di cosa realmente significhi cercare una storia, trasmettere una storia e far vivere una storia. Un narratore sa molto bene la differenza tra un pubblico che sente ed uno che ascolta e , per quanto paradossale, pur aumentando il nostro tempo libero, abbiamo diminuito la nostra disponibilità ad ascoltare, o dovrei dire la nostra capacità. Forse che lentamente ma inesorabilmente il tempo del narrare sta giungendo alla fine…della storia?
E’ una domanda che il narratore deve porsi sapendo che la risposta possibile è nel suo costante agire. Abbiamo costantemente bisogno d’azione, cultura, pensiero e opinioni che nascano dal narrare come nutrimento del pensiero e rappresentazione del vivere. Ricordo che molti anni fa, il settimanale Panorama, invase gli spazi pubblicitari con la frase: “I fatti separati dalle opinioni”. Political correct si dice oggi, ma continuo a non capire come questo sia possibile. Certo, da un punto di vista prettamente giornalistico l’etica deontologica dell’obiettività e dell’imparzialità avrebbe, forse, una sua logica, ma nella realtà del vivere, sappiamo bene che non può essere vero. Non ci sono fatti senza opinioni perché niente è come è. Le cose sono come noi sappiamo vederle e chi racconta, chiunque esso sia e in qualsiasi modo racconti, non è neutro rispetto al narrato. Egli ha un’opinione, un modo di vedere, guardare, sentire e capire individuale. Non possiamo negare che raccontare sia un atto politico, con tutte le interpretazioni e conseguenze del termine “politico”. Insomma tutto il contrario della sterilizzazione di pensiero collettiva oggi in auge che tende a livellare, massificandolo, il nostro modo d’intendere e volere. Rivendico e difendo la bellezza della singolarità e della diversità e la sua accettazione in quanto parte della nostra umanità. Ed è attraverso quest’ individualità di pensiero ricettivo e narrativo che si racconta il fatto, facendolo nuovamente avvenire nel mondo virtuale della memoria e della fantasia umana, dove subisce un’ulteriore trasformazione, prodotta dalla sensibilità di colui che ascolta. Solo così scaturisce l’emozione. Certo tutto questo comporta fatica e richiede disponibilità che è una merce sempre più rara.
Raccontare, in qualsiasi forma e tecnica questo avvenga, è un atto creativo e nel nostro caso il narratore, il cantore è un creatore anzi, un ricreatore di vite. Potremmo anche sostenere che è il reincarnatore di tutte le vite vissute e trascorse. Ogni volta che racconta, i personaggi rivivono insieme alle loro emozioni. Il giorno in cui l’emozione narrativa dovesse cessare, cesserà anche l’emozione e la curiosità del vivere. Coltiviamo a lungo e bene questa capacità così peculiarmente umana. Narrare è l’arte per eccellenza attraverso cui si diramano le tecniche e gli strumenti del narrare, sia questa musica, pittura, scultura, teatro, danza e tutta quella miriade di discipline esercitate dall’uomo. Qualcuno potrebbe affermare che anche la stessa vita si racconta mentre vive e avrebbe ragione. Dunque narrare è tutto? La forma retorica mi permette di continuare precisando che come narratore l’unica risposta possibile è sì. Narrare è uno spostamento di pensiero, di visione. Dunque narrare, nella sua mutevolezza, è espressione di vita. “Io vivrò”. L’ha detto Orazio e aveva ragione. Narrare è innanzi tutto un movimento nel tempo, un fluire nel tempo e attraverso il tempo e in questo tempo, lo spazio sarà occupato da coloro che ascoltano il narrato: il pubblico. In quanto all’aèdo, come evocatore, è parte del tempo. Come artista, narratore e cantastorie, sento profondamente e perennemente questo essere tempo alla ricerca dello spazio, di uno spazio e del suo pubblico.
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