INTERVISTA A GIAN PAOLO BORGHI etnomusicologo
effettuata da GIUSI COLMO
il 3 agosto 1986 a Casalecchio di Reno (Bologna)
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
LETTERE MODERNE
“ Storia della Musica ”
TESI DI LAUREA
“ LA FIGURA DEL CANTASTORIE ITALIANO FRA PASSATO E PRESENTE “
Candidata GIUSI COLMO
Relatore Prof. Giorgio Pestelli
Anno Accademico 1986 – 87
Interviste a:
Cicciu Busacca Nonò Salamone Roberto Leydi Michele Straniero Gian Paolo Borghi
Si ringrazia Giorgio Vezzani direttore della rivista “Il Cantastorie” per l’importante contributo alle ricerche
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‑ La vostra rivista “Il Cantastorie” è l'unica che si occupa seriamente dei cantastorie?
In maniera continuativa sì, anche se ci sono altre riviste di tradizioni popolari che si interessano saltuariamente di questo aspetto della cultura popolare. "Il cantastorie" nasce nel 1963 con una finalità specifica, cioè di documentare quella realtà dell'espressività popolare costituita da questa forma di spettacolo che negli anni '60 era già in fase di declino ma che annoverava ancora una ottantina di cantori. Durante gli anni '60 i cantastorie si trovavano ancora in piazza, se pur intralciati da enormi difficoltà di sopravvivenza in senso artistico e professionale.
I mercati si stavano trasformando a causa dei nuovi regolamenti di polizia urbana, questi regolamenti sono sempre esistiti, ma finché c'erano pochi ambulanti o perlomeno fino a quando il fenomeno dell'ambulantato non aveva assunto le proporzioni odierne, la vita per i cantastorie non era molto difficile. I nuovi regolamenti di polizia urbana prevedevano per gli ambulanti uno spazio minimo e i cantastorie si trovavano ad aver bisogno di uno spazio notevole per poter fare quello che in gergo si dice “il treppo”, cioé creare un cerchio di gente. Inoltre disturbavano gli altri venditori. Chi canta e suona ovviamente, attira maggiormente l'attenzione rispetto ad un qualsiasi venditore che vende la sua merce a pochi metri di distanza. Il primo fattore è determinato da questi contrasti che nascono fra gli ambulanti, e il secondo da una sorta di antipatia da parte dei vigili urbani che cercavano inutilmente di cacciarli via. Il terzo fattore è quello più preso in considerazione dagli studiosi e cioè il modificarsi dei gusti popolari. I cantastorie avevano perduto la loro funzione di cronisti già nell'immediato dopoguerra, la diffusione della radio e della televisione aveva inciso moltissimo.
‑ Quale meccanismo era scattato?
Non c'è una causa sola, sono tante, non ultima il fatto di non aver aggiornato il repertorio. I testi che cantano oggi i cantastorie sono gli stessi degli anni '50, certo la gente ancora si diverte, ma è pubblico non pagante che li ascolta una sola volta all'anno e non più ai mercati. Dipende anche dal tipo di cantastorie. Il cantastorie comico Giovanni Parenti di Modena ha ancora molto successo, oggi ha addirittura affinato il repertorio, ha eliminato le tragedie. Questo personaggio vecchio e strambo che fa colore, oggi riesce durante gli spettacoli ad avere un successo incredibile. Altri suoi colleghi non riuscirebbero perché purtroppo si sono fossilizzati su testi e musiche molto al di fuori dei tempi, oppure hanno cercato all'ossessione di utilizzare parodie di canzoni di successo.
Lo stereotipo del cantante di successo è l'uomo alto giovane e bello, per cui trovarsi un ottantenne che va in giro a cantare queste canzoni è uno spettacolo deprimente.
L'unico modo che ha oggi il cantastorie per sopravvivere è lo spettacolo organizzato. Il meccanismo della vendita del foglio volante si è perso, per un motivo molto semplice, dovrebbero vendere il foglio a mille lire; come si può ancora stampare un foglio volante con 10 o 15 canzoni, obiettivamente non avrebbe più senso. Abbiamo sperimentato, quando Giorgio Vezzani (fondatore e direttore della rivista “Il Cantastorie”) lavorava sulle gazzette emiliane, di stampare noi alcuni fogli, per vedere come funzionavano. Non avevano un minimo di resa.
Parenti si spostava con un suo furgoncino che faceva anche da albergo per la notte, nella zona di Bologna, in certi periodi aveva 90 possibilità su 100 di essere cacciato via dai vigili. Dagli anni '60 circa, i cantastorie hanno cercato di inserirsi nel mercato con i dischi a 45 giri, non erano molto costosi né per loro, nè per chi li comprava; però bisognava produrne in continuazione, perché la gente voleva sempre le novità. Il cantastorie non aveva la possibilità di incidere 20 dischi all'anno, al massimo ne incideva due o tre. Un altro tentativo di sopravvivenza è stato quello di abbinare degli altri articoli, per la verità questo lo facevano già negli anni '50. Abbinavano ai fogli volanti le lamette da barba o le penne biro o altrimenti si buttavano nell'arte ciarlatanesca come il Callegari che poi non ha inventato proprio niente… Altri cantastorie prima di lui facevano la stessa vendita che nel gergo si chiama "battere la santoccla" cioè vendere collanine e immagini di santi o di Papa Giovanni.
Altro tentativo è quello di avere un banco vero e proprio e lavorare part‑time come cantastorie, uno che ha scelto questa strada è Marino Piazza. Oggi fa il venditore ambulante, oltre a vendere i suoi articoli di pelletteria vende le sue cassette e i libretti con le canzoni, fa sei mercati la settimana, economicamente si salva molto bene; anche perché è conosciuto e i suoi imbonimenti fanno sempre spettacolo. L'unico tentativo di sopravvivenza parzialmente riuscito è quello del palco, occasione presa al volo dal De Antiquis proprio in funzione del successo delle sagre.
‑ Cosa pensa lei dell'A.I.CA (Associazione Italiana Cantastorie)?
L'associazione di fatto non è mai esistita, oggi non fa nulla, ma non solo oggi, da venti anni a questa parte. Nasce nel '47 con una motivazione abbastanza consistente, si trovava a condividere i problemi con gli altri ambulanti. C'è stato un periodo in cui l'associazione è arrivata ad accogliere trecento persone, avevano voce in capitolo, pagavano le quote regolarmente e avevano un'attività da difendere. Cercavano di ottenere maggiori spazi in piazza, questo obiettivo si è realizzato al minimo. A Bologna non hanno ottenuto niente, furono cacciati da piazza 8 Agosto dai vigili; il problema non era la licenza, tutti l'avevano, ma il posteggio, lo spazio assegnato. Nei posteggi c'è un ordine di priorità che dipende dal tipo di attività e dal genere merceologico che si vende. Qualcosa hanno comunque ottenuto: un posteggio a Milano al Castello Sforzesco, non in un mercato tradizionale quindi, ma in un luogo dove poteva esserci un certo movimento di pubblico.
Oggi vivono nel ricordo di come erano bravi allora. Gli attuali iscritti all'A.I.CA hanno un'età che supera abbondantemente i 70 anni, ma a parte questo, non hanno più nessuna intenzione di tornare in piazza. Sono consapevoli che i tempi sono cambiati, non vogliono più tornare in piazza perché i bei tempi sono questi rispetto al passato. La gente li ascolta e li apprezza, non devono stare a sgolarsi per vendere i fogli, partono da casa sapendo che avranno un guadagno sicuro che varia solo a secondo del tipo di contratto. Per loro è ovvio che è meglio lavorare in queste condizioni.
‑ Si può parlare di evoluzione del cantastorie?
Se facciamo un discorso filologico il mestiere, come era nella tradizione, non esiste più, non si incontra più il cantastorie che vive vendendo i suoi fogli volanti. Secondo me l'evoluzione c'è stata… in altre direzioni, soprattutto ne ha guadagnato l'esecuzione. Una volta in piazza i cantastorie non cantavano la canzone per intero, la interrompevano perché dovevano vendere, il loro assillo quotidiano era quello di guadagnare quel tanto che bastava per mangiare. L'esecuzione completa di una storia avviene solo a partire da questi ultimi anni. Chi ha osservato l'attività degli ultimi cantastorie pavesi ha potuto osservare la loro ossessione nel cercare di mantenere il treppo, cercare di vendere la merce con qualsiasi mezzo "se restate vi regalo questo!" erano certo molto bravi nel loro lavoro.
‑ Busacca si definisce l'ultimo dei cantastorie
Tutti si definiscono gli ultimi, se uno va a parlare con Vito Santangelo, che attualmente lavora ancora, si definisce l'ultimo in assoluto. Lo stesso direbbe il figlio di Orazio Strano, Leonardo. Parlai con Orazio negli anni '70, si definiva l'ultimo e giudicava tutti gli altri dei ladri che gli portavano via il mestiere.
‑ Il discorso dell'evoluzione e dei cambiamenti vale anche per i cantastorie siciliani?
I cantastorie siciliani hanno una realtà molto diversa. Non hanno avuto la possibilità di avere un minimo di attività in spettacoli organizzati come qua al nord; in Sicilia questo fatto non si è verificato. In tutta la zona padana i cantastorie lavorano molto durante le feste di partito; hanno iniziato con i festival dell'Unità, poi quello dell'Avanti e ultimamente sono stati chiamati dalla festa dell'Amicizia. In Sicilia le feste di partito non prevedono quasi mai esibizioni di cantastorie. Durante le feste patronali al sud si tende a chiamare un cantante di grido, una star famosa, si decide di spendere molti milioni pur di avere il successo di pubblico assicurato, non si chiama certo il cantastorie che solo fino a ieri era un problema per i vigili urbani. Molti comuni del sud ragionano in questi termini "visto che la festa patronale è una volta all'anno, tanto vale organizzarla in questo modo”.
‑ Come si è mantenuto il repertorio dei cantastorie siciliani?
Rispetto ai cantastorie padani, si è mantenuto maggiormente integro, più aderente alla tradizione. I cantastorie siciliani hanno accorciato le loro storie, Vito Santangelo, ad esempio, attualmente canta alle fermate degli autobus e per ragioni di praticità ha dovuto accorciare le storie, però vende ancora i fogli a 100 o 200 lire. Non sono più le storie fiume di tre ore, ma sono rimasti fedeli ai contenuti: tragedie e fatti di gelosia.
‑ Quali obiettivi si pone la vostra rivista?
La rivista “Il Cantastorie” nasce da un incontro tra Vezzani e De Antiquis durante le sagre. Lo scopo era quello di documentare dall'interno la realtà dei cantastorie. Vezzani prende al balzo la proposta e inizia a realizzare la rivista. Dopo quegli anni, devo dire che i rapporti sono rimasti abbastanza buoni, certo non sono mancati i contrasti, in particolare per alcuni articoli da noi pubblicati, ma tutti i diverbi sono stati superati civilmente. Il nostro problema è quello di non farci condizionare troppo da loro, perché abbiamo sempre paura di pubblicare non quello che interessa a noi, ma quello che interessa i cantastorie.
‑ Che rapporti mantiene con De Antiquis?
Ottimi. Ho una decina di registrazioni con De Antiquis divise per anni, episodi, situazioni, ho notato che alcune cose me le ripete sempre nella stessa identica maniera come se avesse un suo cliché. Ogni cantastorie ha un suo stile personale e inimitabile. De Antiquis ha scritto ultimamente delle cose nuove su alcuni fatti, segue delle vicende e poi su queste scrive la storia. I cantastorie anche se hanno una nuova produzione, non hanno più la diffusione di un tempo.
‑ Cosa pensa la vostra rivista dei giovani cantastorie?
Inizialmente, nelle prime fasi di incontro, abbiamo molta cautela e prudenza perché, l'esperienza ci insegna, molto spesso sono dei cantautori mancati che cercano l'ultima spiaggia del successo in questo ambiente di anziani. Seguendoli meglio alcuni hanno stile e volontà e dimostrano pienamente la validità della scelta da loro fatta. Uno di questi è Corbari, poi c’è il figlio della Boldrini, la coppia Cesare e Sonia Magrini, questi ultimi però, sono suonatori ambulanti di strada e non veri cantastorie. Il repertorio dei giovani cantastorie è del tutto nuovo, Corbari è l'unico che ha ancora voglia di scrivere canzoni legate alla tradizione. Chi decide di fare il cantastorie non lo fà comunque come unica attività principale. Questo discorso vale per tutti i mestieri della piazza, a parte il venditore ambulante, anche il burattinaio non riuscirebbe a vivere facendo solo quello.
‑ Il pubblico dei cantastorie è cambiato?
Un tempo il pubblico era abbastanza omogeneo, composto da gente del ceto popolare, oggi è eterogeneo, una parte è ancora costituita dai vecchi clienti, un'altra parte dai giovani, in particolare da coloro che si interessano di cultura popolare. Quello che manca è lo spettatore medio televisivo, o se c'è va via dopo dieci minuti di spettacolo. Questi raduni sono seguiti in particolare dai giovani, l'atteggiamento di un pubblico giovane è di curiosità e divertimento. Sono spettacoli un po’ fuori dalla norma e attirano molto i curiosi, se però la rassegna proseguisse per altri due giorni il 50% del pubblico sparirebbe.
‑ Perché titolare “Il Cantastorie” una rivista di tradizioni popolari?
L'idea è partita da De Antiquis, perché in origine ci occupavamo quasi esclusivamente di cantastorie, i primi numeri di formato piuttosto grande, risalgono agli anni '60 e all'epoca il 90% della rivista era dedicato ai cantastorie dell'Italia del nord e del centro.
‑ Quali sono le Regioni che hanno una tradizione di cantastorie?
Le regioni di grande tradizione sono l'Emilia Romagna, la Lombardia, la pianura padana, in particolare la zona pavese. Milano è sempre stata un grosso centro di raccolta, non solo per i cantastorie, ma per tutto lo spettacolo di piazza, suonatori ambulanti compresi. Altre zone erano il piacentino, il mantovano, inoltre l'Emilia ha sempre avuto una tradizione più estesa rispetto alla Romagna, le Marche avevano molte fiere e mercati, la Toscana ha avuto cantastorie e improvvisatori in ottava rima, e al sud emerge la Sicilia.
L'A.I.CA accoglie attualmente i cantastorie della tradizione e anche coloro che negli spettacoli più o meno si ispirano alla loro tradizione. Esiste anche una sezione di amici dei cantastorie, è un modo per cercare di sopravvivere, l'associazione di fatto non esiste, ma venti anni fa era molto peggio, non aveva neanche un sua sede stabile.
‑ Che rapporti hanno gli studiosi di etnomusicologia con i cantastorie?
Leydi nasce come etnomusicologo con i cantastorie e i venditori ambulanti. Le prime registrazioni le ha fatte agli inizi degli anni '50 nei mercati milanesi, ha lavorato moltissimo sui cantastorie e ha raccolto un cumulo di materiale, poi li ha abbandonati quando ha visto la crisi che stava interessando tutto il settore. Carpitella in maniera specifica non si è mai occupato di cantastorie ma piuttosto dell'ottava rima e dell'improvvisazione. La nostra rivista ha comunque rapporti con questi personaggi, siamo iscritti alla società italiana di etnomusicologia, abbiamo rapporti con Carpitella e Cirese. Vezzani conosce da oltre trent'anni Leydi. Sia Vezzani che il sottoscritto abbiamo una seconda attività, la nostra rivista non ha finanziamenti di tipo universitario, sarebbe molto difficile vivere esclusivamente basandosi sull'attività della rivista.
‑ Quale sarà il futuro dei cantastorie?
Io prevedo altri quattro o cinque anni di attività, oltre ho dei grossi dubbi; non dimentichiamo che la maggior parte dei cantastorie ancora attivi ha più di 70 anni e quindi per ragioni di età se ne andranno poco alla volta. Pensando al loro futuro più che vederli singolarmente, bisogna considerarli nel contesto. Alcuni aspetti della loro attività tradizionale sopravviverà e sarà ripescata da altri.
‑ Qual'é stata la funzione sociale dei cantastorie?
Il cantastorie quando lavorava in piazza era legalitario. Quando faceva stampare i fogli con le canzoni, veniva sottoposto ad una serie incredibile di controlli, non poteva essere un contestatore salvo in alcuni casi a livello locale, una frase in dialetto non sempre veniva capita dalle autorità. Se si parla singolarmente solo alcuni hanno avuto una funzione sociale.
‑ Come si comportano oggi i cantastorie?
Si autocommemorano in una generale atmosfera di malinconia e si compiangono. Questo atteggiamento vale per tutti i cantastorie anziani e per quelli che esercitano un mestiere legato alla piazza e ai mercati.
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