INTERVISTA A CICCIU BUSACCA

cantastorie

 

effettuata da GIUSI COLMO

 

il 22 marzo 1986 a Borsano - frazione di Busto Arsizio (Varese)

 

 

 

 

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO

 

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

 

LETTERE MODERNE

 

“ Storia della Musica ”

 

TESI DI LAUREA

 

“ LA FIGURA DEL CANTASTORIE ITALIANO

FRA PASSATO E PRESENTE “

 

 

Candidata

GIUSI COLMO

 

Relatore

Prof. Giorgio Pestelli

 

Anno Accademico 1986 – 87

 

 

Interviste a:

 

Cicciu Busacca

Nonò Salamone

Roberto Leydi

Michele Straniero

 Gian Paolo Borghi

 

 

Si ringrazia Giorgio Vezzani direttore della rivista “Il Cantastorie”

per l’importante contributo alle ricerche

 

 

 

 

‑  Come è diventato cantastorie?

 

E' stata più che altro passione, passione vera. Quando ero bambino, al mio paese venivano i cantastorie, uno dei più bravi era Orazio Strano, è morto un palo dl anni fa. L'unico che mi piaceva era lui, gli altri 2 non mi dicevano niente. Proprio da bambino, avrò avuto otto o dieci anni, mi è nata la "malattia" di fare qualche verso, qualche canzone. Infatti quando succedeva un fatto in un paese, me lo raccontavano e io facevo la storia. Tutto a memoria, non sapevo scrivere, non sono mai andato a scuola, poi la facevo sentire agli amici e in famiglia.

 

 

 

 

‑  La musica era sua?

 

Le musiche che ho composto in tutto saranno tre o quattro, le altre sono popolari, cose antiche.

Poi le mie storie, giustamente, si perdevano perché non erano scritte. Mio padre era fornaciaio. D'estate, da bambino, facevo il fornaciaio. Il fornaciaio è quello che fa i mattoni, le tegole e tutte queste cose… poi si cuociono nella fornace.

Se uno lo dice oggi non lo si crede. Lavoravano anche bambini di quattro/cinque anni, i mattoni si dovevano stendere al sole ad asciugare, non appena veniva un temporale, si doveva correre per portare questa roba in magazzino, non si doveva bagnare perché altrimenti si scioglieva.

Poi, a sei anni ho fatto anche lo zolfataio. Lavoravo nelle zolfare, forse è laggiù che mi sono rovinato i polmoni.

 

 

‑  Cosa si faceva nelle zolfare?

 

Si lavorava a 500/600 metri sottoterra. I bambini dovevano portare sulle spalle grossi cesti e salire le scale, poi c'erano anche le fornaci che cuocevano il materiale.

 

 

‑  In che zona?

 

Questa zolfara era tra Catenanuova e Cénturipe, in provincia di Catania. Ora queste zolfare sono sparite, era una rovina.

 

 

‑  Chi portava al lavoro i bambini?

 

I genitori li mandavano! A piedi, tutto a piedi. Da Paternò (io sono di Paternò, vicino a Catania) fino a Catenanuova, ci sono 25/30 chilometri, tutto a piedi! Non solo, ma dovevi portarti il pane per una settimana sulle spalle, dormire a terra; un po' di paglia per terra e si dormiva. Tante volte si facevano sei giorni, poi il sabato si andava a casa. Altre volte si facevano quindici giorni e si tornava a casa ogni due sabati.

 

 

 

 

 

‑  Quanto si guadagnava?

 

Alla zolfara, mi pare, erano tre lire al giorno e si lavorava veramente 18 ore e non per scherzo.

 

 

‑  Cosa si comprava in quel periodo con una lira?

 

Mi ricordo che un chilo di pane costava mezza lira, 12 soldi.

 

 

‑  Quindi si lavorava per sei sette chili di pane

 

Si, ma era necessario. Eravamo sei figli e si doveva lavorare tutti, facevamo questi lavori di fatica e non si riusciva neanche a mangiare, se si trovavano due pani e una cipolla era una fortuna. Vestiti? E chi li conosceva! Non si capiva mai qual era la prima stoffa, la prima pezza e le scarpe le tenevamo insieme con il fil' di ferro. Queste cose oggi sembrano favole. Questa vita è durata fino ai 25 anni: d'estate il fornaciaio, d'inverno lo zolfataio oppure il contadino, in campagna a raccogliere i carciofi, gli aranci e i mandarini. Fino ai 25 anni e sempre con quella malattia di fare qualche verso, sempre a memoria, perché non sapevo scrivere.

Mentre facevo ii fornaciaio a Raddusa che è un paese sempre della provincia di Catania, successe un fatto: una ragazza di 17 anni aveva ammazzato il padrone di suo  marito che l'aveva violentata. Io ho fatto la storia, lavorando e pensando, facevo una strofa poi l'attaccavo all'altra, tutto a memoria. Al mio paese viveva un cantastorie non molto famoso, si chiamava Gaetano Grasso, un giorno incontrandolo per le strade di Paternò gli ho fatto sentire la storia che avevo atto. Gli dissi: "Vi faccio sentire una cosa che ho fatto io, vediamo se vi piace". Appena sentita la canzone, si mise le mani nei capelli: "Come? Fai di queste cose e te ne vai a fare i mattoni? Sei pazzo, perchè non fai il cantastorie?" "E' una parola, io non so cantare… sì canto, ma così sotto gli alberi…". Quando si lavorava, si cantava tutti, con quale coraggio non lo so, ma era quella la vita! Poi io la chitarra non la sapevo suonare, non conoscevo neanche lo strumento. Gli dissi: "Mi piacerebbe fare il cantastorie, ma non come lo fate voi, perché è una vergogna." Perché cosa faceva? Lui come tanti altri vendevano la carta. La canzone, la storia che si cantava era stampata su un foglio di carta che si vendeva. La vendevano a 10 lire.

 

 

 

 

 

 

‑  La vendevano perché la gente se la ricordasse o perché la potesse cantare?

 

La vendevano per prendere i soldi… come tiravamo avanti allora? Dopo passavamo ancora con un piattino per sfruttare ancora la popolazione, chi non comprava la canzone poteva regalare qualche cosa, accettavano anche una sigaretta. Queste cose io non le potevo sopportare, già da ragazzo lo dicevo a tutti: "Non fate ‘ste cose, la carta anziché venderla a 10 lire vendetele a 15, ma non fate ‘ste cose , perché sono vergognose." "Ma Cicclu, il piattino sembra niente ma sono 800 1000 lire al giorno". Sto parlando di quando avevo 25 anni, io guadagnavo mille lire al giorno. "Quanto si guadagna vendendo un foglio di carta a 10 lire?". Io da ignorante pensavo che si guadagnasse una lira a foglio. "No! E' tutto guadagno!". "Caspita! Mi hai quasi convinto a fare il cantastorie". "Ci sono giornate buone e si guadagnano anche 5000 lire". Io dovevo lavorare una settimana per guadagnare quella cifra, ma lavoro, lavoro! Diciotto ore vere d'estate, da buio a buio. Dopo un paio di giorni sono andato a cercarlo. "lo sono pronto a fare il cantastorie, però non ho un compagno con la chitarra". Questo mi risponde che non è difficile trovarlo, disponibile era un certo Paolo Garofalo. A quei tempi molti cantastorie erano zoppi, ciechi, paralitici, monchi, era tutta gente che non poteva lavorare, questo Paolo Garofalo lo chiamavano "lo zoppo", lui la chitarra la sapeva suonare bene. Cantava sugli autobus, sui treni, cantava canzonette napoletane e poi passava con il piattino e si guadagnava qualche cosa. Sono andato a cercarlo. "Buon giorno, mi manda don Gaetano, ti voglio far sentire una cosa che ho fatto io, una poesia". Quello sente questa cosa e dice: "E' molto bella, sai cantare?". "Ho cantato sotto gli alberi in campagna". "Beh, proviamo". Prende la chitarra e proviamo un pezzo. "Ma tu sei nato cantastorie! Non ho mai sentito una cosa così bella! Hai i soldi per la carta?”. "No". "Ne ho io".

Siamo andati in una tipografia, io non capivo niente, non sapevo neanche che cos'era una tipografia. La canzone l'avevo tutta a memoria, comunque tutte le canzoni scritte ci sono costate 16 soldi. Siamo partiti di sabato      sera con il treno Paternò‑Caltanissetta: 130 chilometri. Siamo arrivati di sera tardi e l'indomani mattina lui mi dice: "Andiamo al mio paese", lui era di San Cataldo, però abitava a Paternò. Siamo andati in questo paese, un paese di zolfatai e quindi di domenica tutta la gente è in piazza. Lui aveva l'altoparlante della Geloso, di quelli a valigia c'era dentro anche l'amplificatore, il barbiere ci dava la corrente, due sedie, una lui che suonava la chitarra ed una per me che cantavo. C'era molta gente, ma io ero abituato alla folla perché da giovanotto ci mettevamo in cinque o sei in piazza, travestiti e facevamo il processo, tutto in versi. Il popolo non mi faceva paura, anzi!

La piazza era piena e mi sono messo a cantare. Circa a metà storia dissi: "Signori miei, io la chitarra non la so suonare, devo rimanere da solo, la storia ve la spiego in versi mentre lui passa in mezzo a voi, non pensate che passa con il piattino come fanno tanti, passa solo per vendere la storia a chi piace, a chi non piace mille volte grazie lo stesso, la storia costa venti”. Io queste cose le pensavo di notte perché avevo proprio la passione. Chi è quello sfacciato che ti viene a dire che non ha le venti lire piuttosto le chiede all'amico vicino. Un successo enorme. A leggere la storia si impiegava circa tre minuti, io cantando lavoravo per un'ora e mezza perché ogni strofa la spiegavo. I bambini piccoli capivano tutto perché spiegavo ogni parola. Siamo scesi dalle sedie e a mezzogiorno siamo andati in una trattoria, un posto sporco, oggi non ci sono più questi posti. Abbiamo mangiato trippa quel giorno, per me era festa, poi abbiamo contato i soldi. Quando Paolo ha visto tutti quei soldi ha detto: "Io non ho mai visto tanti soldi insieme". Erano 10.000 lire. "Cicciu siamo ricchi!". Un successo enorme. Io la storia la sentivo veramente, piangevo quando la cantavo e piangevano tutti. Fra mattino e pomeriggio, sempre nello stesso paese, abbiamo guadagnato 31.000 lire e questo Paolo è diventato pazzo. Quella sera, pazienza, abbiamo mangiato nella stessa trattoria e dormito in una locanda, così dl paese. Quando Paolo ha visto tutti quei soldi si è ubriacato e ha cominciato a cercare alberghi di lusso e ristoranti di lusso. "Siamo ricchi!" mi diceva, " Paolo, che dici, io ho lasciato la zappa, io mangio pane e cipolla !" "No, siamo artisti, siamo grandi, siamo ricchi!" Ogni tanto dicevo: "Paolo, è brutto che io devo rimanere senza chitarra, dimmi come si fa". "No, ora non mi sento, domani, domani". Per abbreviare, è passato un mese, venti giorni, non ricordo bene e abbiamo fatto 52.000 lire di incasso. Quanto abbiamo portato a casa? Non ricordo bene, circa 20.000 lire in tutto. Ero disperato, dovevo cercare qualcuno che ml insegnasse la chitarra. A quei tempi in tutti i negozi di barbieri c'era sempre una chitarra, un mandolino, una fisarmonica.

Quando siamo arrivati a casa con queste 20.000 lire, io mi sono lavato, cambiato e sono andato dal mio barbiere. Mi faccio fare barba e capelli e così, tanto per attaccare discorso dico: "Dimmi un po' Mario, quanto tempo ci vuole per poter imparare la chitarra?".  "Sei pazzo! la chitarra alla tua età! Queste sono cose che si studiano da bambini, la chitarra non ha fine, più cerchi toni e più ne trovi, nella chitarra, non finiscono mai".

Io queste cose non le capivo: "A me interessa solo per accompagnare le canzoni" perché io, cantando, ogni tanto guardavo Paolo e vedevo che faceva pochi movimenti, erano tre accordi. Questo barbiere mi ripete: "Ma a te cosa interessa imparare a suonare la chitarra?". Allora gli dico: "Senti, ti devo confidare una cosa che ancora nessuno sa", veramente non lo sapeva nessuno! Solo mia moglie sapeva che io ero andato via per un mese, né mio padre né mia madre. Se riuscivo lo avrei fatto sapere, altrimenti niente. Racconto tutta la storia al barbiere: "Guarda, abbiamo fatto questo e quest'altro, sono sparite 500.000 lire". "Va bene, fammi sentire cosa canti." Lui mi ha accompagnato con la chitarra, io guardavo i movimenti che faceva, erano tre toni precisi. "Cicciu!" dice "tu le devi studiare bene queste cose".

"Ma se sono tre toni! Io questo lo faccio in un'ora". Di tutto questo abbiamo fatto il film, tre anni fa, abbiamo parlato con il barbiere. Un pezzo della mia vita.

 

 

-  Con chi l'ha fatto?

 

Con la terza rete di Palermo.

Allora il barbiere mi dice:  "Io ti do la chitarra, se entro una settimana sei capace ad accompagnarti, te la regalo." "Va bene". Mi ricordo che era un giovedì. Me ne vado a casa con la chitarra e mi siedo in un angolo, alla sera stessa io sapevo suonare la chitarra! Cioè, sapevo accompagnarmi e infatti dopo quarant'anni i toni sono rimasti sempre quelli, non mi sono mai interessato di più alla chitarra. Verso mezzanotte, mi ricordo che era il mese di settembre, vado a casa di mio padre, abitavamo vicino. Busso, mio padre dice: "Che c'é, cosa è successo?" "Niente, aprite!" Chiedo subito di Nino che è mio fratello, il più piccolo di tutti "Svegliatelo!" dico "Te la senti di venire con me a fare il cantastorie?" "Che cosa?" "A cantare nelle piazze."

 

 

‑  Quanti anni aveva suo fratello?

 

17 o 18, aveva otto anni meno di me.

"Non devo fare niente?" "Tu devi solo vendere la carta". “E la chitarra?" "La so suonare". " E quando hai imparato?". "Oggi" e così gli racconto tutta la storia. Dico: "Domani proviamo". Me ne sono andato a letto, ma io non potevo dormire, pensavo alle 500.000 lire. L'indomani mattina ci siamo visti e quando mi ha sentito cantare è rimasto così!

"Ma la chitarra?" "ieri pomeriggio me l'ha data Mario e adesso suono la chitarra". Con Paolo eravamo rimasti che il sabato si doveva ripartire. Le giornate forti erano sabato e domenica.

 

 

‑  Nei paesi si cantava di mattina?

 

Si arrivava sempre di mattina, perché non si faceva solo la piazza. Di giorno si facevano i quartieri dove si raccoglievano 80/100 donne, secondo i quartieri. La sera si faceva la piazza.

 

 

‑  Diceva delle donne…

 

Si, tutti gli uomini erano a lavorare.

Paolo mi viene a cercare il sabato mattino, mi dice: "Allora, Cicciu, partiamo nel pomeriggio". "No, con te non parto più". "Come?!". "Parto con mio fratello". "Tuo fratello, e la chitarra?" "La so suonare". "Dai, non scherzare". "Non sto scherzando, domani, domenica, canto qua a Paternò." "Cicciu, ma tu sei pazzo!" "No, non sono pazzo, domani, verso le dieci, vieni in piazza, mi troverai che canto."

A quel punto mio padre, mia madre, tutti i fratelli: "Ma sei pazzo! Disgraziato! Questa é vergogna, tu non sei paralitico, non sei cieco, disgraziato!" "Guardate che è un mese che faccio il cantastorie ed è successo questo e quest'altro, quindi lasciatemi in pace!" L'indomani mattina sono in piazza con l'altoparlante sempre della Geloso e le due valigette; mi ricordo che tutto costava 30.000 lire, lo pagavo 4.000 al mese.

 

 

‑  Aveva un microfono?

 

Sì, un microfono e due altoparlanti, ho fatto l'attacco nella chitarra. Tutti i miei fratelli, eravamo in cin­que, sono venuti in piazza, però si sono nascosti, anche mio padre. A Paternò mi conoscevano tutti. Oggi è 60.000 abitanti, allora ne faceva 35.000. Mi conoscevano tutti per il fatto che io a carnevale, ogni anno organizzavo qualcosa in piazza. Metto su il cartellone e al microfono dico: "Avvicinatevi, fra qualche minuto si incomincia a cantare, come vedete è arrivato il cantastorie Cicciu Busacca!"

 

 

‑  Che cos' era il cartellone?

 

Un telone dove c'era tutta la storia dipinta.

 

 

‑  Da chi si faceva dipingere i cartelloni?

 

Era, se campa ancora non lo so, uno di Messina completamente analfabeta; non sapeva neanche fare i numeri, ogni quadro del cartellone aveva il suo numero, prima bisognava scriverglieli, poi lui dipingeva il resto.

Così la gente sente che Cicciu Busacca è un cantastorie. Piazza piena e inizio a cantare. La folla non mi faceva nessuna impressione, non la vedevo neanche. Ad un certo punto la solita storia: "Ora passa mio fratello in mezzo a voi, non pensate che passi con il piattino, ma per vendere la storia, la storia costa venti lire e chi non ha le venti lire, la chieda, mio fratello ha gli ordini di regalarla." Successe, a raccontarla così non sembra vero, successe il finimondo, mio padre, tutti i miei fratelli che si erano nascosti, hanno preso le storie e hanno cominciato a venderle.

Siamo arrivati a casa, abbiamo messo i soldi sul tavolo e li abbiamo contati: 55.000 lire. Mio padre: "Ma io non ci potevo credere! Sei capace a fare queste cose! Ma dove le hai imparate?"

"Ma non lo so." E' stata una favola. Da allora incominciai a lavorare con mio fratello. Come? Con le biciclette. Uno portava l'altoparlante e la chitarra e l'altro la valigia con le canzoni Ho girato la Sicilia in bicicletta, un paese al giorno. Dormire?

Nei fondachi. Allora c'erano i fondachi, dove i carrettieri ogni sera lasciavano i carretti, erano grandi magazzini. I muli e cavalli nella stalla e si dormiva su un po' di paglia buttata a terra.

Ci dava da mangiare la "funnacara" la fondacaia, ci cucinava mezzo chilo di pasta.

 

 

‑  Che cos'era esattamente un fondaco?

 

Era osteria e fondaco. Si riposavano i muli, i cavalli, gli asini allora non c'erano tutte queste macchine.

Facevano un giorno di cammino poi arrivavano nel paese e si sistemavano nel fondaco, tutti i carrettieri. Si cantava tutta la notte, ci si divertiva e poi si dormiva per terra. Abbiamo girato la Sicilia con le biciclette. Io pensavo in continuazione, volevo andare avanti. Dico a mio fratello: "Dobbiamo comprare la macchina, farà da albergo e da ristorante".

 

 

-  Quanto è stato fuori?

 

Più di un mese. Siamo tornati a casa con qualche cento­mila lire era già ottobre, iniziava a piovere e con la pioggia si lavora di meno comunque mi bastavano per comprare la macchina. Ho comprato una topolino con la ruota di dietro, aveva 4000 di targa. La macchina! Senza patente, senza niente. Mi era costata 180.000 lire cento in contanti e ottanta in cambiali. Dovevo prendere la patente. C'era un campo sportivo e con un mio amico tassista siamo andati a fare pratica, mi ha dato il codice stradale, ma io non sapevo leggere ed erano gli altri a leggermelo.

Quando ho guidato per la prima volta da solo ho girato per più di un'ora, ad un certo punto ho pensato agli sbirri se mi fermavano senza patente. Andavo per una strada larga, volevo girare e arrivato vicino al marciapiede, invece di schiacciare il freno ho schiacciato l'acceleratore e ho sfasciato la macchina.

Riprendo la bicicletta e via a guadagnare altri soldi. Nel frattempo studiavo, mio fratello avevo fatto un po' di scuola serale e mi insegnava le lettere dell'alfabeto sul codice stradale. Dopo che mi hanno aggiustato la macchina siamo ripartiti. Questo mio fratello aveva anche lui la passione, forse erano i soldi che facevano venire la passione, ma io avevo passione vera. Di giorno facevamo quattro/cinque quartieri, la sera eravamo in piazza. Poi un bel giorno ho detto a mio fratello: "Facciamo un'altra storia, la impari a memoria e canti anche te.” Dopo un anno ci siamo comprati una macchina nuova, una cinquecento, faceva da albergo e da ristorante. Avevamo un fornello a spirito e un pentolino, compravamo mezzo chilo di carne, si mangiava tutti e due nello stesso pentolino, da fratelli.

 

 

‑  E per dormire?

 

Sul portabagagli erano legati due sacchi di paglia, la sera toglievo i sedili, li mettevo da qualche parte coperti da una tela cerata e i sacchi li stendevo dentro la macchina, dormivamo vestiti. Una brutta vita. Poi ho comprato la macchina nuova e ho messo due miei fratelli insieme a lavorare.

Io invece, ho incontrato una donna, la cognata di Paolo, quello zoppo, una bella ragazza e ho girato con lei fino al '55. Quattro o cinque anni di questa vita. I mie fratelli lavoravano senza molta passione, poi si sono aggiunti altri due fratelli. Ognuno girava per conto suo, si guadagnava bene.

 

 

 

 

 

La storia dl Giuliano me l'aveva data Turiddu Bella, un poeta siciliano, poi ho fatto quella mia, l'ho fatta più corta, mi costava di meno e la vendevo a cento lire, ma vendevo!! Proprio Turiddu Bella un giorno mi dice: "Se vieni a Palermo chiamami che dobbiamo andare a trovare un grande poeta". A me allora piaceva parlare con questi poeti. Il giorno che sono passato per Palermo siamo andati a trovare Ignazio Buttitta. Io non lo conoscevo direttamente, ma solo per via dei giornali, senza paura di sbagliare, è il più grande poeta che abbiamo in Sicilia, uno dei grandi d'Italia. Turiddu Bella mi presenta a Buttitta: "Questo è Cicciu Busacca". "Che fai?" "Il cantastorie." "Che significa cantastorie?" e allora un po' io, un po' Turi Bella glielo abbiamo spiegato e lui risponde: " A Catania ancora esistono queste cose? A Palermo non li ho visti mai." " Li ho visti io" dico "ma erano cosucce da poco, non lo dico per invidia o per grandezza, lo facevano senza passione, senza anima" "Tu a Bagheria hai mai cantato?"

“Sì un paio di mesi fa, mentre cantavo la storia di Giuliano sono venuti cinque sbirri, ml hanno portato in caserma e mi hanno sequestrato la macchina, tutto; mi ricordo che era inverno, dopo un po’ ml hanno restituito le cose dicendomi che a Bagheria non mi dovevo fare più vedere". Buttitta dice: "Chi è stato?" "Il commissario" "Ma tu vuoi cantare qua? " "Porca Miseria! Bagheria è un grosso paese, ricco". "Ci penso io." Prende il telefono e cerca il commissario poi me lo passa: "Sì sono io quello a cui avete sequestrato tutto, mi avete trattato come un criminale solo perché cantavo Giuliano" " Va bene, che permesso vuole?" "Tre ore".

 

 

‑  Nei paesi erano i carabinieri a rilasciare i permessi?

 

Secondo i paesi, potevano essere i carabinieri, i vigili urbani, la questura o il sindaco. Molte volte si cantava lo stesso, senza permesso, quando ti conoscevano bene poi non c'erano problemi.

 

 

‑  Costavano i permessi?

 

Si, la marca da bollo, mi sembra cento lire. I permessi li ho conservati tutti. Me ne ha fatto uno il padre di Domenico Modugno, che era comandante dei vigili urbani in un paese in provincia di Brindisi.

Alla sera, quindi, si cantava in piazza. Era sempre piena di gente, non c'era nessuno che restava per le strade, perché per loro era come andare al cinema. Se c'era da piangere, piangevano, se c'era da ridere, ridevano. Quella sera a Bagheria, Buttitta si è piazzato per due ore davanti a me. La storia di Giuliano durava due ore. Quando ho finito mi ha abbracciato: "Non ho visto mai uno spettacolo così bello!" Dopo siamo andati a mangiare, lui prende il telefono e chiama tutti i pezzi grossi di Bagheria: avvocati, ingegneri, dottori, scrittori, c'era anche Renato Guttuso, li invita tutti al ristorante a mangiare. Dopo aver bevuto un po' di vino io ho cominciato a improvvisare. Nelle improvvisazioni io raccontavo la mia storia, tutto a ottave o endecasillabi, allora ero capace, adesso non ci riesco più. C'era la passione, l'abitudine. Tutta la notte a improvvisare, ad un certo punto un signore, un avvocato, uno che dopo è diventato deputato mi dice: "Quanti anni hai?" "Trenta." "Sposato?" "Sì" (io mi sono sposato a sedici anni) "Hai figli?" "Quattro." "Peccato, se eri solo ti facevo studiare" però ogni volta che passavo da  Bagheria avevo tutti questi amici.

 

Con Buttitta sono diventato grande amico… Proprio lui mi dice: "Senti, se io ti scrivo una storia, me la canti?" "Perché no?" Nel maggio del '55 la mafia ha ammazzato Turiddu Carnevale, un sindacalista. Buttitta mi cerca per telefono: "Guarda che è successo questo fatto, ne parlano tutti i giornali, ti faccio una storia." "Falla." Ve lo posso giurare, Buttitta ha fatto la storia di Turiddu Carnevale in una notte, all'indomani mattina, sono passato da lui ed aveva già la storia pronta.

"Cicciu ho finito la storia." "Me la fai sentire?" Bella, bella! "Quanto ti ci vuole a impararla a memoria?" La donna che girava con me, prima aveva avuto un altro amante che le aveva insegnato a leggere e scrivere in stampatello. Ho conservato alcuni suoi scritti, tutti in stampatello, io parlavo e lei scriveva. Lei mi leggeva la storia camminando, in macchina, appena avevamo un po' di tempo, lei leggeva io ascoltavo, dopo un paio di giorni torno da Buttitta e gli dico che la storia l'ho imparata. Lui mi dice: "Con questa storia sbalordiremo il mondo!" Poi ci siamo salutati. Verso il mese di ottobre o novembre, sempre del '55, mi telefona: "Sei disposto a venire con me a Livorno? Non ci daranno neanche una lira, però ci pagano le spese, c'é il terzo congresso della cultura popolare, parteciperanno tutti i grossi… d'Italia. "Vengo." Buttitta aveva sempre per la testa che con la storia avremmo "sbalordito il mondo".

 

 

‑  Era la prima volta che si allontanava dalla Sicilia?

 

No, in tempo di guerra ero andato a cercare lavoro a Bologna, ma ci sono rimasto solo un giorno, poi sono scappato. Questo congresso era il sei gennaio, ci siamo dati appuntamento a Livorno, in albergo. Lui era come me, pieno di passione, tutte queste cose le faceva di nascosto da sua moglie perché lei non voleva. A lei, infatti, aveva detto che usciva per prendersi un caffè e invece Buttitta prendeva l'aereo per Livorno. Queste cose sembrano favole! Ci siamo incontrati a Livorno in albergo; io ero senza chitarra, senza niente, pensavo: "Mi faccio una passeggiata, tanto le spese sono pagate, non mi interessa niente".

 

Inizia il congresso, io non ci capivo niente, zero. C'era Zavattini, Guttuso, Luchino Visconti, tutti i più grossi d'Italia erano lì. Ascoltavo quello che dicevano, ma non capivo niente. Il congresso durava tre giorni, ogni tanto Buttitta veniva nella mia stanza e diceva: "Vedrai, tu sbalordirai il mondo, ti ho fatto mettere l'ultimo di tutti per farli sbalordire." Il giorno prima della mia esibizione, Buttitta viene nella mia camera: "Cicciu, io non vedo la chitarra dov'è?" "Sì, io portavo la chitarra dalla Sicilia? Sono mica pazzo." "Come, un cacciatore se ne va a caccia senza fucile?" "Ma che ci faccio io qua? Buttitta, io non ho capito niente di quello che hanno detto!" "Loro non si fanno capire, ma vedrai che a te ti capiranno subito!"                                     

"Dove la prendo una chitarra?" "Da un barbiere". L'indomani mattina alle dieci siamo andati dal barbiere più vicino al teatro, era il cinema‑teatro Moderno di Livorno.

 

 

 

 

 

 

‑  Avrebbero cantato altri cantastorie?

 

Nessuno, c'erano solo discorsi, per questo che io non capivo niente. Andiamo dal barbiere: "Senta, per favore ha una chitarra? Le lasciamo un deposito per questa sera, si deve esibire e non ha lo strumento." "Ve la porto, tanto siete qua vicino." "Domani gliela renderemo." "Va bene." Signori miei, credetemi, io ero un niente, una formica, ad un certo punto quello che presentava, non mi ricordo più chi, dice: "Per terminare, abbiamo pensato di presentare come ultimo, un cantastorie; Cicciu Busacca è pregato di farsi avanti". Io ero seduto in sala, non mi sentivo più scorrere il sangue, faccio il giro per arrivare sul palco, tremando; non appena arrivo dietro le quinte, mi passa la paura completamente. Dico: "Una sedia!!" Metto un piede sulla sedia. "Come vedete è arrivato il cantastorie Cicciu Busacca per farvi sentire" e inizio a cantare. C'era un silenzio di tomba, non lo dimenticherò mai. Ad un certo punto c'era un verso che diceva: "Se iddu cercati latruni e briganti in palazzu li truvati cun l'amanti." Tutta la sala in piedi, il cuore diventò tanto. Quando poi, nella storia ammazzano Turiddu Carnevale e arriva la madre che piange sul cadavere del figlio, qua c'erano due fontane ‑(indica gli occhi)‑ ma non ero solo io a piangere, c'erano i riflettori e vedevo quelli davanti con i fazzoletti. Aveva ragione Buttitta, avevo vinto. Terminata la storia, quante centinaia di persone sono salite sul palcoscenico! Il primo è stato Carlo Levi che mi ha detto, ci sono i giornali che lo provano, "Benedetta la madre che ti portò al mondo!" L'indomani tutti i giornali ne parlavano, un successone. Abbiamo riportato la chitarra al barbiere e Buttitta al solito suo dice "Fatevela firmare questa chitarra che un giorno costerà milioni." "Che dici?" "Firma la chitarra!!" Ho firmato e siamo tornati a casa soddisfatti.

Dopo un po' di mesi, nel '56 ci hanno chiamato al Piccolo teatro di Milano. Buttitta mi aveva telefonato: “Cicciu, sei disposto a venire a Milano? Ci pagano quattromila lire al giorno nette." Non era molto, comunque! Lo spettacolo era intitolato: Pupi e cantastorie in Sicilia; metà era con pupi e metà eravamo cantastorie. C'ero io, Orazio Strano e un altro che si chiamava Ciccio Patania, mi pare. Siamo stati quindici giorni a Milano, un successone! Da allora ho abbandonato le vecchie storie che cantavo, perché prima cantavo tutti fatti di sangue, gelosia, corna.

 

 

‑  Erano fatti veri?

 

Fondamentalmente sì, poi cambiavo dei nomi aggiungevo qualche cosa. Quelle proprio vere che ho fatto in tutta la mia vita saranno tre o quattro, le altre le ho inventate. Leggevo le notizie sul giornale e mi venivano le idee. Poi ho iniziato a cantare la politica: Turiddu Carnevale, il Treno del Sole, che cos'è la Mafia. Si moriva di mafia; sai quante minacce ho ricevuto io in Sicilia? Dicevo: "Ammazzatemi! Avete ucciso Turiddu Carnevale, ammazzate pure me!!" "No, Cicciu, noi ti vogliamo bene, che dici?!" Io non sentivo le minacce, non avevo paura e così hanno cominciato a negarmi i permessi. Dove arrivavo io non si lavorava più. Ho sopportato, mi ero fatto una bellissima casa, grande; ma intanto non lavorando le spese crescevano. Certo, non dormivo più in macchina, ma in albergo non di lusso, ed erano tutte spese che correvano. Per abbreviare, ho resistito due anni, fino al '70 ma ho fatto debiti a non finire. "Devo scappare" dicevo. Ho venduto la casa e sono partito, me ne sono andato a Firenze un anno e poi sono venuto qua perché c'era già un fratello "Vieni a Milano" mi diceva, "I ragazzi possono lavorare." A Firenze lavoravo solo io con Rosa Balestrieri, ma si faceva poco. Poi sono venuto a Milano e i ragazzi hanno cominciato a lavorare, allora c'era lavoro, adesso ho ancora una figlia disoccupata e uno che lavora al nero. Sono veramente combinato male. A Milano facevo spettacoli con altri due fratelli lavoravo bene. I miei figli cantano tutti, Paolo ad esempio canta da quando aveva cinque anni, io lo mettevo sulla macchina e lui cantava, ora suona la chitarra ma così, con gli amici.

 

Dario Fo viene a sapere che ero arrivato a Milano e mi manda a chiamare. Io l'avevo conosciuto al Piccolo Teatro. Mi dice: "Sai Cicciu, noi vorremmo fare teatro popolare, siamo un collettivo teatrale, siamo tutti uguali, ma siccome tu hai tanti figli, ti pagheremo di più" Così ho iniziato a lavorare con Dario Fo, che successi!! Ci sono i giornali che lo provano. Il primo spettacolo si intitolava: “Ci ragiono e Canto 3”. Praticamente conteneva la storia di Turiddu Carnevale, il Treno del Sole, che cos'è la Mafia. Lo spettacolo durava due ore di cui più di un'ora solo sulle mie spalle. Dario Fo era contento, eravamo tutti contenti, si lavorava, abbiamo girato l'Italia. Molte volte abbiamo trovato difficoltà da parte dei carabinieri per i permessi. Successivamente siamo andati anche all'estero: Svizzera, Francia, Belgio, Germania, sia nei teatri che in piazza. Un giorno Fo mi dice, vedendo quella che era la mia passione: "Tu potresti fare anche il giullare." Io non sapevo neanche che cosa era un giullare. "Quello che faccio io lo puoi fare anche tu, qualche pezzo almeno, per esempio la nascita del giullare, e falla in siciliano". L'ho fatto. Questo pezzo durava più di quaranta minuti, lui lo recitava da ridere, io lo vedevo drammatico, si piangeva. Tutto questo é durato fino all'80, poi La Comune si è sfasciata. Dario Fo ha veramente smosso le acque in Italia, era un portento, era uno che faceva tremare, è grande, è l'unico in Italia, un grande attore. Da solo fa cento, riesce a reggere uno spettacolo lungo ore tutto da solo. Quando è da solo non si può veramente descrivere la capacità di quell'uomo.

 

 

‑ Che effetto le ha fatto incidere dischi, passare dalla storia raccontata direttamente alla gente, alla regi­strazione in sala?

 

Si, facevo la registrazione in sala, però quando ero nelle piazze, cantavo io le storie, non le cantava il disco.

 

 

‑  Sceglieva i paesi secondo un itinerario?

 

Io facevo un paese al giorno, ogni venti o trenta chilo­metri c'è un paese.

 

 

‑  Cosa faceva quando al mattino arrivava in un paese?

 

Scaricavo la mia roba, mettevo su il cartellone e incominciavo a gridare con l'altoparlante: "Avvicinatevi è arrivato il cantastorie!!" Facevo questo sia in piazza, la sera, sia di giorno nei quartieri dove c'erano le donne.

 

 

‑  La storia prima la spiegava?

 

Si, la spiegavo: "Signori miei vi racconto la storia di…" C'era una storia che diceva: "dalle stalle alle stelle e dalle stelle alle stalle" una storia che leggendola durava cinque minuti, io la facevo durare due ore.

 

 

‑  La gente aveva delle preferenze?

 

Nelle mie storie c'era sempre un po' di tutto, l'amore e l'odio per i padroni.

 

 

‑  Il pubblico l'appoggiava?

 

Caspita! Erano i film popolari che si facevano nel '50.

Storie napoletane: la figlia del barone che si innamora del contadino e il padre di lei lo fa ammazzare.

 

 

‑  Ha notato differenza tra il pubblico siciliano e quello del nord?

 

No, reagiva nello stesso modo. Mi ricordo che nel '57 c'è stato un raduno di cantastorie a Gonzaga in provincia di Mantova, ognuno poteva partecipare con il proprio dialetto. L'articolo era su Sorrisi e Canzoni. Io questo giornale non lo prendevo mai, lo leggeva la donna che stava con me. Mi dice: "Cicciu, c'è la torre d'oro come primo premio!" "Non ci illudiamo, andiamo a cantare in siciliano a Mantova? Nessuno ci capirebbe." "Iscriviamoci lo stesso!" Comunque, ci siamo iscritti, le spese erano pagate e siamo partiti. Mi ricordo che prima di partire ero andato a trovare mio padre, gli avevo detto: "Papà, la torre d'oro sarà mia." "Sei pazzo, guarda che ci sono tutti i cantastorie, ci sono i napoletani, i romani”. Ad ogni modo siamo arrivati a Gonzaga, il pubblico era popolo, la manifestazione si chiamava: la Fiera Millenaria. Eravamo 161 cantastorie di tutta Italia, però cantastorie veri erano pochi, quelli del nord hanno un altro stile, è un'altra cosa.

 

 

‑  Che differenza c'è?

 

Quelli del nord ti fanno una storia con tre parole e su un motivo in voga. Le nostre storie, invece duravano una o due ore, la storia di Giuliano io la facevo durare tre ore! Questi ti fanno durare una storia tre, quattro minuti, e se la fanno su motivi popolari antichi, massimo dura dieci minuti. Poi suonano in quattro o cinque insieme: batteria, chitarra, fisarmonica, clarinetto. No, il cantastorie è solo con la chitarra o la fisarmonica. Loro, poi, non fanno spiegazioni. Io ogni strofa la spiegazione: "Signori miei, quello era lì… e faceva…".

Quando cantavo io, nessuno si allontanava dalla piazza, erano tutti inchiodati anche i bambini. A Gonzaga vedevo tutti quei cantastorie che secondo me non lo erano, mi sembravano piazzisti, cantanti e basta. Il terzo giorno viene il mio turno era l'una, l'ora di pranzo, in piazza c'erano un mille persone. Mi chiamano "Cicciu Busacca!!" Prendo il mio cartellone, ero l'unico ad avere il cartellone, ed inizio: "Signori miei, questa è la storia di Giovanni Accetta, dura due ore ma siccome vedo che è tardi, quando vi stancate mi fate un segnale e io smetto". In giuria c'erano Zavattini, Leydi e altri pezzi grossi. Comincio a cantare in siciliano. Giovanni Accetta è uno che viene accusato ingiustamente di omicidio con falsi testimoni, lui giura davanti ai giudici di essere innocente e dice: "Muoio in galera, ma se esco vivo vi ammazzo come tante carogne!" Difatti ammazza poi circa venti persone. Fiumi di sangue. Arrivato a meta storia mi dicono :"Cicciu, cerca di spiegare in quattro parole come va a finire" dopo siamo andati a mangiare. La sera stessa c'é stata la premiazione. "Cicciu Busacca, re dei cantastorie è pregato di farsi avanti!" C'era la televisione, tutto il popolo che urlava: "Queste cose belle devono fare in televisione". Mi avvicina uno della televisione e mi dice: "Sei disposto a venire a Milano un tivù?" Io a casa l'avevo detto "Mi vedrete in televisione". Mio padre era convinto che la televisione fosse tutto un trucco "C'è qualche pellicola che gira lì dentro, quando termina la pellicola non si vede più niente, ma tu parli da Milano e si vede qua?" Dovevo fare un'apparizione in una trasmissione condotta da Mike Buongiorno. C'era un concorrente abruzzese, un pastore completamente analfabeta, che doveva rispondere sull'Orlando. A me avevano detto di stare in albergo e di non parlare con nessuno, mi avevano dato dodici ottave di questo Orlando. "Falle in siciliano che le devi cantare in televisione." il concorrente abruzzese doveva rispondere a tre domande. Spedisco un telegramma a casa "Domani sera, ore nove Cicciu Busacca in televisione". Mio padre diventa pazzo, prende il telegramma e comincia a girare per tutto il paese, "Stasera c'è mio figlio in televisione!!" Allora a Paternò c'erano solo una decina di televisori, però. Lascia o Raddoppia si faceva anche al cinema. La sera stessa mio padre mi vede in televisione: "Ma allora è vero! Non è un trucco, domani me la compro". Quella era l'ultima puntata, dopo che ho terminato di cantare. Buongiorno fa tre   domande all'abruzzese; quello gli risponde "Guardi che le domande che lei mi ha fatto non le ho capite, io ho capito quello che ha cantato il cantastorie, guardi le voglio regalare questo bastone" era un bastone che lui usava per guardare le pecore e lo da a Buongiorno come dirgli "Vai a guardare le pecore!!" Il significato di quel gesto era proprio questo, io l'ho capito subito. Questo abruzzese ha vinto circa cinque milioni, si è comprato un ristorante al suo paese, ho anche una fotografia dove siamo io e lui insieme.

 

 

-  Quali regioni hanno avuto una tradizione di cantastorie?

 

Più che altro la Sicilia e l'Emilia Romagna.

 

 

‑  E in Calabria?

 

Non c'erano veri cantastorie, non cantavano vere storie ma canzonette in dialetto, può essere che parlo per invidia ma io la penso così. In Sicilia i vecchi cantastorie facevano anche teatro. Erano uomini di teatro, di fantasia. Anch'io facevo teatro, cambiavo le voci, parlavo come una madre, come un maresciallo; nessuno mi ha mai detto che cosa dovevo fare, ero solo.

 

 

‑ La gente la conosceva come Cicciu Busacca o anche con un altro nome?

 

Prima di fare il cantastorie ero "U valurusu", "Cicclu u valurusu" figlio di " Paolo u valurusu ".

 

 

‑  La gente cosa pensava di lei come cantastorie?

 

Quando ero in piazza io ero come un dio. Ci vorrebbe un mese intero per raccontare tutte queste cose. Mio padre faceva anche il chiromante, faceva le fatture alle mogli che avevano litigato con i mariti e che volevano fare la pace. Erano tutti imbrogli, io lo sapevo. Mio padre era analfabeta come me, quand'era militare aveva sfasciato la testa ad un capitano dell'esercito e gli avevano dato sei anni di galera, in quel periodo aveva imparato a leggere e scrivere. Un bel momento, quando vede che le cose vanno abbastanza bene, inventa un libro. Copia un po’ di qua un po' di là e fa una specie di oroscopo, si chiamava "L'astrologia". Quando ero bambino facevo finta di essere un sonnambulo: mio padre mi addormentava e poi indovinavo quanti soldi aveva in tasca la tal persona, naturalmente era tutto un trucco. Per raccontare tutti questi fatti non basterebbe un libro di mille pagine! Nel libro non c'era scritto niente, di bello c'era solo  il calendario perpetuo che non falliva mai. Quando andavo in piazza cercavo anche di vendere a qualcuno il libro di mio padre. Dopo che avevo finito di cantare, dicevo: "Non andate via perché ho un regalo per voi, una cosa utile per tutte le famiglie". Era uno spettacolo, nessuno si muoveva! "Vedete questo libro è l'astrologia, significa la vita dell'uomo e della donna, indovina presente passato e futuro, non ci  credete? Credeteci!" Inizialmente nessuno ci voleva credere, poi chiamavo avanti il più sfacciato e gli dicevo   "Fatti avanti, quando sei nato?" "il dieci gennaio 1925" "Qualche volta hai sentito dire da tua madre che sei nato di giovedì?" "E' vero!!" Poi continuavo con un altro "Guarda che tu hai un neo sul fianco destro, tu ti sei appena separato da tua moglie" Io li guardavo negli occhi e dicevo "E’ tutto scritto qua !" Ma non c'era scritto proprio niente, in un paese io riuscivo a sapere tutto di tutti e così vendevo il libro a cento lire. Mi credevano, erano cotti, per loro ero come un dio.

 

 

-  Incontrando una persona sconosciuta, lei si presentava come cantastorie?

 

Dipende, se sapeva che cos'era il cantastorie, mi presentavo così se non lo sapeva glielo spiegavo.

 

 

‑  Che cosa ha dato il cantastorie al popolo siciliano?

 

In Sicilia ha dato tanto e peccato che ad un certo punto l'hanno fatto sgombrare, il cantastorie vero poteva fare la rivoluzione, come faceva Dario Fo. Se io dicevo: "Guardate che c'è un asino che vola" tutti lo vedevano questo asino. Il cantastorie aveva quella forza. Era la mia natura, il mio istinto, la gente credeva tutto quello che io dicevo. Con la scusa del libro sull'astrologia, venivano a farti le confidenze sui soldi che avevano e su altre cose, io dicevo sempre: "Ma lasciate perdere" Mio padre, invece, ci mangiava su questo, io no, non avrei avuto mai il coraggio di approfittarne. Mi limitavo a vendere il libro.

 

 

‑  Quindi il cantastorie era amico della gente

 

Caspita!! In un paese a Campobello di Licata mi avevano scassato la macchina, mi avevano preso: dischi, libri, altoparlante, tutto. Una guardia notturna aveva visto.

L'indomani quando sono sceso dall'albergo ho visto la macchina rovinata, mi sono guardato intorno niente; si avvicina questa guardia: "Cosa c'è signor Busacca?" "Io queste cose non le merito!" "E’ vero, sono ragazzacci, comunque lei non deve sapere chi e stato, sono nel bar." La sera stessa a Campobello ho fatto la piazza e ho detto: "Signori miei, io non so chi è stato a scassarmi la macchina e non lo voglio sapere, però a me queste cose non le dovete fare perché mi pare che lo sapete tutti che se viene qualcuno da me che sta male io gli do sempre qualche cosa.” A me bastava capire che erano poveretti e non camorristi.

 

 

‑  Ogni quanto tornava in un paese?

 

Ogni anno

 

 

‑  Come l'accoglievano quando tornava?

 

Non appena vedevano la macchina di Ciccìu Busacca succedeva il finimondo, non occorreva fare nessuna propaganda.

 

 

‑ Lei è stato uno degli ultimi a lavorare con questi criteri?

 

Quando ho iniziato io c'era solo Orazio Strano, poi solo a Paternò ne sono nati cinque o sei.

 

 

‑  Come li giudicava?

 

Niente, non valevano niente, può essere invidia la mia, ma si vedeva che non ci mettevano l'anima a cantare, non credevano in quello che cantavano. I miei figli cantano tutti, hanno fatto anche degli spettacoli con me e Dario Fo. Però ho una nipote che quando era bambina si vedeva proprio che cantava con l'anima, veniva sempre con me. Quando avevamo la trattoria a Torino in provincia di Como ( ? ), alla sera facevamo sempre degli spettacoli e lei cantava anche solo delle canzonette però con sentimento.

 

 

‑  Quando scriveva una storia, la musica la metteva subito dopo?

 

Si, le musiche erano quelle rimandate da una generazione all'altra. Le storie erano sempre endecasillabi o settenari.

 

 

‑  Che cosa le ha dato Buttitta?

 

Buttitta mi ha dato la politica, perché io prima non ne capivo niente di politica. Da cantastorie che cantava la cronaca sono passato a cantastorie che cantava la storia. Questo mi ha portato a scappare dalla Sicilia, ma c'è stata anche molta soddisfazione non avrei potuto incontrare Dario Fo, per me  sono stati dieci anni di esperienza.

 

 

‑  Come si lavora con Fo?

 

Molto bene, poi tutto è andato a rotoli. C'è stato un periodo che ho creduto dì vedere finire in galera Fo per le cose che diceva e che faceva. Lui e Franca Rame avevano formato il Soccorso Rosso, infatti la sera quando terminava lo spettacolo si diceva: "Signori, pensiamo ai compagni" erano centinaia di mila lire che si raccoglievano tutte le sere e poi Franca Rame glieli portava in carcere.

 

 

‑  Attualmente che rapporti ha con il mondo dei cantastorie?

 

Dimenticato tutto, per me il passato esiste solo nei ricordi. Per me sono stati 35 anni belli.

 

 

‑  Cosa pensa di quelli che oggi si definiscono cantastorie?

 

Cantastorie veri non esistono più. Non ho più visto nessuno piangere, io piangevo veramente e non per arte, piangevo perché sentivo quello che cantavo. Erano pellicole che passavo davanti agli occhi, era un cinema che vedevo e che trasmettevo agli altri.

Quelli che cantano oggi sono bravi ma non sono veri cantastorie, c'è mio fratello che fa ancora il cantastorie però di cronaca nera, lui usa spesso le mie storie, lavora con le mie storie.

 

 

‑  Quale è stata la sua prima storia?

 

Tutte a memoria non me le ricordo, solo qualche pezzo, (l'intervistato mostra un cartellone) questo è un esempio di cartellone, dei dipinti su stoffa da ambo i lati. Questa storia è una delle prime "La fine di un milanese". Un milanese viene in Sicilia e si innamora di una ragazza cioè la prende in giro e poi lei va a Milano per ucciderlo. Dall'altra parte c'è Petru Taormina che è stata la prima storia con il sistema dei quadri chiamati, una mia invenzione, non c'era più bisogno di dire ogni volta "Guardate questo quadro, guardate quello".

 

 

-  Questi cartelloni li ha dipinti sempre quello di Messina?

 

Si, lui era uno che disegnava per le strade, un madonnaro.

 

 

-  Che differenza c'è tra il contastorie e il cantastorie?

 

Il contastorie ti racconta la storia, non la canta, la parla e usa certi movimenti belli. In particolare recita Orlando e Rinaldo, la Barunissa di Carini…

 

 

‑  La gente preferiva ascoltare un certo tipo di storia?

 

No, organizzavo tutto io.  Una storia molto bella che piaceva era quella di Carmelu Ciaramedda (“Carmelu Ciaramedda l’omu cchiù sfurtunatu di lu munno”). Una ragazza figlia di un fruttaiolo, uno che vende la frutta per le strade su un carrettino si innamora di uno molto ricco, un miliardario. Questa ragazza rimane incinta e lo dice a lui, contenta "Aspetto un bambino, sposiamoci." "Sei pazza! Abortisci, che ti sei messa in testa? Io sono già fidanzato per i fatti miei" e infatti la ragazza viene a scoprire che sua cugina le ha rubato il fidanzato, va a casa, prende la pistola e li ammazza tutti e due. Va in galera e il bambino nasce in carcere. Dopo tre anni lo tolgono alla madre, lei impazzisce e muore. A diciotto anni il ragazzo viene preso dai nonni materni. Arriva a casa, tutti sapevano che era il figlio del ricco e della povera, ma conoscevano di più la madre che il padre, tutti lo aspettavano, gli volevano bene. Questo ragazzo era molto intelligente e il nonno lo fa studiare, a scuola si incontra con una ragazza e si innamorano. Nel paese conoscono sia lui che lei. Lei che cosa era? Era la figlia del fratello dell'uomo che non aveva voluto sposare la fruttaiola cioé la madre del ragazzo. Questi due Innamorati erano cugini! Infatti quelli del paese lo chiamano e gli dicono "Ma tu sai chi è quella? Quella è la figlia del fratello di quello che ha rovinato tua madre" "Cosa importa! Noi ci vogliamo bene". Quando si incontrano questi due ragazzi lui le dice: "Lo sai che siamo cugini? Tua padre è pericoloso". "Non importa noi siamo noi, il passato è finito". Il popolo sapeva apprezzare l'amore vero per questo che la storia piaceva tanto. La voce circola e arriva alle orecchie del padre di lei: "Tu incontri quello?" "Sì ma io l'amo e basta!" Chiusa in casa, non può più uscire. La ragazza una notte prende un lenzuolo e scappa come i carcerati. Ma il padre sente dei rumori proprio mentre lei sta scappando e infatti vede la figlia appesa al lenzuolo e le spara, l'ammazza. Il padre viene arrestato e i suoi fratelli cercano il ragazzo per ucciderlo. Questo ragazzo dopo la scuola se ne andava a piangere al cimitero, un giorno mentre piange lo trovano e lo ammazzano, lui prima ne uccide tre, poi tutto ferito con il sangue scrive sulla tomba di lei "Cu passa e s'ha da leggere leggite, la terribile fine di sti ziti" gli ziti sono i fidanzati "O patri e matri che figli ci aviti e sapete che sunu innamorati, cuntro l'amore nun vi ci mettite perché sò chisti li veri peccati, l'amore vince qualsiasi intreccio e ve lo dice Busacca Ciccio" Le mie storie terminavano sempre così con Busacca Cicciu o Cicciu Busacca.

 

 

‑  Che cosa è stato per lei fare il cantastorie?

 

La più grande soddisfazione della mia vita… Tornassi indietro comincerei a quindici anni, io mi sentivo già la capacità di farlo solo che allora, l'ho già detto, i cantastorie erano tutti paralitici.

 

 

‑  Quanto ci impiegava a fare una storia?

 

Dipende, se trovavo un filone, una settimana, anche di meno. Certe volte mi sentivo libero e le storie venivano da sole. Mi ricordo che una volta con un poeta eravamo a Villarosa in provincia di Enna, siamo stati dalle otto di sera fino alle cinque del mattino a improvvisare, era forte quel poeta non ne ho trovato uno uguale. Allora c'era l'abitudine l'allenamento perché nelle bettole quando si mangiava non si faceva altro, incontravi uno che ti conosceva e incominciavi a parlare e improvvisare.

 

 

‑  C'erano delle occasioni particolari in cui la chiamavano?

 

Poteva succedere a dei matrimoni ma io non ci sono mai andato. Un giorno mi manda a chiamare da Ginevra un prete per cantare. Sapevo che era un teatro con palcoscenico però nella sala c'erano 200 tavoli con gente che mangiava. Appena ho visto come stavano le cose ho detto "Mi dispiace ma io qua non canto." "Perché?" "Io voglio essere ascoltato quando canto." "Ma guarda che sono tutti siciliani e calabresi." "Sì, ma io non voglio sentire volare una mosca io voglio il massimo silenzio altrimenti me ne vado". Il prete insiste e io inizio a cantare. Il mio repertorio era Turiddu Carne­vale, il Treno del sole, che cos'è la Mafia, Desiderio Siciliano. La gente comincia a urlare: "Giuliano, vogliamo Giuliano!" "Ragazzi io non la so a memoria, non me la ricordo più  e poi qua sono venuto per cantare altre cose, tutto è cambiato non siamo in Sicilia, se fate silenzio, vi giuro che dopo lo spettacolo vi faccio sentire un quarto d'ora di Giuliano, se me lo ricordo." Dopo un po' "Giuliano, Giuliano!" "Guardate che sono due volte, alla terza non ci arrivo." dopo dieci minuti "Giuliano!!" Poso la chitarra e vado dal prete: "I soldi!" "Ma lei non ha cantato." "Io l'avevo avvertita che questo mi sembrava un bordello, questo non é teatro, voglio i miei soldi." Poi me ne sono andato. Questo lo facevo sempre anche in piazza, quando capitava in piazza, ma raramente. Poteva essere qualche ubriaco, qualcuno che disturbava, però c'erano gli amici che lo prendevano e lo portavano via. La piazza sembrava un chiesa. Queste sono cose che uno non può credere, se pioveva tu non potevi andartene ti tenevano l'ombrello, tutta la gente si

chiedo perché non poteva continuare!

 

 

‑  Crede che la televisione abbia tolto qualcosa ai cantastorie?

 

Ma non credo, mi ricordo nel '60 o '61 ero in un paesino in provincia di Siracusa ed erano i giorni del festival di Sanremo però tutti gli uomini erano in piazza a sentire il cantastorie. A casa sono rimaste solo alcune donne.

 

 

‑  Che cosa montava sulla macchina?

 

Sul portabagagli c'era un cassone poi una scala che attaccavo alla macchina con due ganci e sopra mettevo una tavola quadrata. Quello era il mio palcoscenico, dietro c'era il cartellone e così io cantavo. L'altoparlante, la lampadina che illuminava il cartellone di sera, era teatro.

 

 

‑  Il pubblico diventava di parte?

 

Si, commentava, la gente parlava sottovoce poi facevano silenzio.

 

 

‑  Quando in Sicilia cantava le storie di mafia, la gente come reagiva?

 

Quante volte mi sono sentito dire: "Cicciu, stai attento! Queste cose sono vere ma non si possono dire." "Io devo dirle".       Sono andato con Buttitta a cantare Turiddu Carnevale a Sciara e il maresciallo non ha voluto responsabilità.

Ho cantato “Giuliano” a Montelepre, il suo paese, mi sembra una favola, il fratello di Pisciotta aveva minacciato di uccidermi. Mi trovavo a Carini e avevo guadagnato bene proprio con la storia di Giuliano, poi volevo andare a Partinico ma si doveva passare per forza da Montelepre. Arrivo in questo paese, alcuni giovanotti appena vedono la mia macchina mi riconoscono: "Tu questa mattina eri a Carini a cantare Giuliano?" "Voi volete che canti Giuliano a Montelepre? Ma siete pazzi! Qua c'è la famiglia." "Ma no, è brava gente!" Era domenica "Sì, io ci provo!"

All'una del pomeriggio vado dalla famiglia di Giuliano, busso e viene ad aprire un vecchio: "Desidera?" "Vorrei parlare con la madre di Giuliano, se è possibile." "Lei chi è?" "Sono un cantastorie." "Aspetti un attimo." Dopo un po' mi fanno salire in casa. C'era tutta la famiglia, la madre era una vecchietta, poi c'erano i nipoti i fratelli, le sorelle, saranno stati una ventina. "Lei è la madre di Turiddu?" "Sì" "Io sono un cantastorie, lei sa che cosa è un cantastorie?" "Sì lo so, difatti quindici giorni fa è venuto uno e se n'è andato via gonfio, l'abbiamo pestato.” "Io non so chi era quello che avete pestato ma una cosa è sicura, nessuno mi pesta, io so un uomo e ho figli anch'io, so cosa vuol dire essere padre e madre, ma io sono anche un cantastorie e ho la licenza, ma io canto lo stesso anche senza il suo permesso." "La storia di mio figlio non la sa nessuno! Solo io e la mia famiglia la sappiamo!"

Allora io le faccio vedere il foglio con la storia dove c'era anche la fotografia di Giuliano "Figlio mio, figlio mio!" e piange. "Signora lei sta guardando solo la fotografia, lei deve leggere la storia!" "Non so leggere, me la legga lei." "Io la so a memoria, non ho bisogno di leggerla" così comincio:

 

"vogghìu cantari cun sensu serenu tutto chiddu ca lid Giuliano, l'orno che per sett'anni nientemeno fjj tremare sotto la sua manu e per dire che Turi fu importanti

 

lu intitularunu re de li briganti.

A Montelepre tutti li abitanti

lu vulevano bene veramente

perché Turiddu un giovane galanti

era, amurusu cun tutti li genti

ma specialmente  cun li genituri

era lu specchiu lu giovane Turi.

Vinne la guerra poi cun gran tirruri

e lu pane s'é visto disiare

ma chiddi che si chiamano signuri

lu pane lu facevano arnuffare

e proprio con chillu pane Giuliano

s'é macchiato di sangue la su manu.

 

La madre mi interrompe: "Basta, basta!" e chiama tutti gli altri i picciotti che prima mi volevano pestare: "Venite a sentire la vera storia di Turiddu!" e mi offre da mangiare e da bere, poi finisco di raccontargli la storia, ogni momento mi battevano le mani "Bello, bravo!" "Per me lei può cantare qua, però noi siamo mal visti dai carabinieri, prima deve andare in caserma”.

"In caserma? Ma io sono autorizzato dalla questura di Catania ma per farle un piacere vado in caserma, non mi possono dire niente".

Vado a parlare con il maresciallo: "Sono un cantastorie, sono venuto qua per cantare." "Qua? Guardi che quindici  giorni fa uno l'hanno quasi ammazzato, comunque contento lei contenti tutti, se vuole lei può cantare, io non so niente." Comincio a sistemarmi in piazza. La luce ma l'avrebbe data Mariannina, la sorella di Giuliano che aveva una merceria in piazza. Verso le cinque o le sei quando la gente comincia a passeggiare, inizio a sistemare il cartellone poi l'altoparlante per ultimo attacco il filo della corrente e tutta la gente: "La sorella gli  da la luce?!"

Su un balcone, proprio sopra la mia macchina era affacciata una bella donna tutta scollata e rideva. "Avvicinatevi, fra qualche istante si incomincia a cantare la vera storia di Giuliano quella vera!" Salgo sulla macchina e, dico: "Signori miei voi sapete meglio di me che quindici giorni fa c'è stato un altro cantastorie che ha cantato Giuliano e l'avete quasi ammazzato dalle botte, io vi assicuro che non me ne andrò (c'è qualcuno che si fa qualche risata) ma vi assicuro che prima di dieci minuti la vedrete piangere"

Hanno capito tutti che io mi riferivo a quella donna e infatti dopo dieci minuti smette di ridere e si mette a piangere.

“Ora vi canto quando Salvatore dopo mesi che era in montagna scende in paese per vedere la famiglia, poi la legge circonda la casa e cercano di arrestare il padre per poter poi arrestare il figlio, ma il padre risponde al maresciallo che non dirà mai dove si trova il figlio." La gente piangeva: "Questa è la vera storia di Giuliano". All'ultimo mio fratello parte con i libretti cento lire, chi se ne prendeva cinque chi sei, chi li comprava per mandarli ai parenti all'estero. Ad un certo punto un giovanotto dice a mio fratello: "Non la voglio la storia, dì a tuo fratello che se ancora parla di Pisciotta…" perché io dicevo che Pisciotta era stato un infame una carogna, aveva ammazzato Giuliano mentre dormiva "… di a tuo fratello che se ancora dice una sola parola su Pisciotta casca morto ammazzato."

Mio fratello si avvicina: "Stai attento Cicclu! C’è il fratello di Pisciotta che ti vuole sparare!" "Sto attento!? Scansati, chi è questo che vuole sparare? Perché sto forse dicendo fesserie? Lo sanno tutti che Pisciotta ha sparato a Giuliano mentre dormiva. Tuo fratello era una carogna. E ora spara se hai il coraggio!" Tutta la gente lo circonda e lo porta lontano, il popolo era con me. Gli amici circondano la macchina e così posso finire di cantare la storia. Ho mangiato a casa di Mariannina e poi sono subito partito per Palermo.

 

 

‑  Se dovesse fare una storia nuova su che argomento la farebbe?

 

Io parlerei di Sindona e Licio Gelli e di molti politici che ci hanno governato. Direi la verità come ho sempre fatto, direi come la penso, io non ho paura di niente.