INTERVISTA A ROBERTO LEYDI etnomusicologo
effettuata da GIUSI COLMO
il 8 ottobre 1986 a Milano
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO
FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA
LETTERE MODERNE
“ Storia della Musica ”
TESI DI LAUREA
“ LA FIGURA DEL CANTASTORIE ITALIANO FRA PASSATO E PRESENTE “
Candidata GIUSI COLMO
Relatore Prof. Giorgio Pestelli
Anno Accademico 1986 – 87
Interviste a:
Cicciu Busacca Nonò Salamone Roberto Leydi Michele Straniero Gian Paolo Borghi
Si ringrazia Giorgio Vezzani direttore della rivista “Il Cantastorie” per l’importante contributo alle ricerche
‑ Esiste ancora il cantastorie oggi?
No. È finita l'epoca dei cantastorie, non lavorano più. Certo ancora si sentono in giro, solo da qualche parte. Sono dei pensionati o dei fasulli. Qualche cantastorie ancora fà le sagre e le feste. Quando dico che non ci sono più, intendo dire che non lavorano come un tempo. È finita.
‑ Quando è finito il cantastorie?
Dieci, quindici anni fa.
- Quali sono i motivi?
Le cause sono abbastanza evidenti. È anacronistico nella realtà di oggi, delle sagre e dei mercati di oggi. Va detto che ormai c'era già stata involuzione, in atto al nord a partire dagli anni '50, non cantavano più le storie, vendevano delle cose: l'acqua benedetta di Lourdes, le immagini di Papa Giovanni, biro e lamette.
Avevano associato un'altra attività in cui applicavano delle tecniche di imbonimento molto raffinate, la parte musicale era diventata marginale. Cantavano solo più dei pezzettini, la storia, il fatto non esisteva più. La gente non è più disponibile a fermarsi ad ascoltare la storia. In Sicilia c'è stato il grande boom negli anni '50, un vero boom anche economico. Io mi ricordo di aver visto in piazza a Bagheria cinque o seimila persone.
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‑ Qual'é la situazione attuale in Sicilia?
C'è ancora Vito Santangelo che però canta canzonette. Le canta sui pullman prima che partano alla stazione delle autolinee, poi passa col piattino. Canta a Catania sui pullman che fanno i giri di tutti i paesini. Canta le sue storie, fatti di cronaca successi poco tempo prima o anche storie satiriche. Mi risulta che attualmente è il solo a fare questo lavoro. C'è solo più lui che scrive storie.
Ignazio Buttitta ha scritto delle cose per i cantastorie, ma più che altro è un personaggio a metà. Ha scoperto il cantastorie tardi a Bagheria tramite Busacca. Ho un'intervista di qualche anno fa’ dove Busacca parla dell'incontro con Buttitta. È rimasta famosa quella frase "noi sbalordiremo Milano".
Se il filo del cantante di piazza che canta fatti o satire è certamente un filo antichissimo, la tradizione siciliana è recente. Orazio Strano è l'innovatore, forse c'é stato Grasso prima di lui. Questo per dire che il cantastorie del “fatto” è moderno, cioè del periodo fra le due guerre, prima c'era l'orbo che cantava storie di santi. Gli orbi erano i cantastorie ciechi. Perché il cieco non poteva fare nessun altro mestiere, cantastorie non per vocazione… o faceva il mendico o il cantore o il suonatore ambulante. Si chiamavano tutti orbi anche se molti non erano orbi, alcuni erano zoppi.
Il cantastorie in Sicilia è recentissimo, è del secondo dopoguerra, la parola cantastorie non c'è mai stata in Sicilia. Forse il Pitrè la usa, ma all'italiana, con una specificazione all'italiana, ma di questo non sono molto sicuro. Comunque Ignazio Buttitta, prima di conoscere Busacca non conosceva la parola cantastorie in Sicilia, conosceva la parola letteraria di cantastorie, ma non applicata alla Sicilia. Ha scritto poi delle storie che però Busacca in piazza non ha mai cantato, le ha cantate in teatro a Milano. Busacca in piazza cantava le sue storie, una sua prima è stata "L'omicidio di Raddusa".
‑ In quali regioni erano diffusi i cantastorie?
Emilia Romagna, Sicilia e la provincia di Pavia, con Pietro Tenti, e il padre di Callegari fra le due guerre seguiva il “Giro d'Italia”. Tromello era un centro molto importante. Anche in queste zone la figura del cantastorie è persa totalmente. C'era anche un giro bolognese, e uno modenese con il Parenti che è di Modena.
‑ Cantastorie donne?
Oltre la Boldrini sono state in parecchie, in passato non credo fossero molte, ma in un periodo recente. A Milano c'era la Pescateri, che è già morta, la Boldrini era molto brava, la Cavallini, nuora del vecchio Cavallini, la Mirella Bargagli, le figlie di quello di Isola della Scala. Le donne cantastorie le troviamo solo nella tradizione padana. In Sicilia non potevano presentarsi in piazza sole, per una questione di mentalità.
‑ Cosa pensa dei giovani cantastorie?
Possiamo chiamarli veramente cantastorie? Mi chiedo. Dove cantano, fanno le fiere, fanno questo mestiere? Sì, cantano. Hanno tutti una doppia attività che da loro la possibilità di vivere. Un tempo i cantastorie facevano fiere e mercati tutti i giorni dell'anno. Era il loro mestiere a tutti gli effetti.
‑ Qual'era la funzione sociale?
Su questo punto c'è molta confusione. Era un divertimento ed uno spettacolo. Informazione no, perché la maggior parte dei fatti è inventato, anche nel passato.
Un grande successo dei coniugi Cavallini "Mamma perché non torni?" è inventato completamente. "Bambina caduta nel pozzo è salvata miracolosamente da Sant'Antonio da Padova" questo è del tutto inventato e risale a prima della guerra. Questo perché raramente un fatto vero ha tutti gli ingredienti. “Giovanni Accetta” è inventato. Forse la storia di Giuliano costituisce un caso particolare. I 21 omicidi di Accetta sono inventati e tutti i grandi successi di Busacca sono storie inventate.
Secondo me va anche tenuto presente che cosa si intende per vero e non vero. Sono sintesi di storie vere, l'essenza è vera, magari sono varie storie messe insieme.
‑ La gente che ascoltava queste storie sapeva che non erano vere?
È come chiedersi se la gente che guarda oggi il telegiornale lo prende per vero o no. Non credo comunque che fosse interessata a sapere un fatto vero, era interessata a seguire un fatto che toccasse le emozioni e i sentimenti, quelle erano le loro necessità.
È anche vero che alcuni fatti veri determinarono storie di successo, ad esempio il vecchio gruppo dei cantastorie milanesi ebbe successo con la storia di Rina Fort "A Milano in via San Gregorio una donna belva assassina uccideva in una cucina una madre coi suoi tre figliol". Fu un fatto clamoroso, questa donna che aveva deciso di uccidere la moglie dell'amante e i tre figli facendo un bagno di sangue. Questo fatto aveva tutti gli ingredienti per stupire ed emozionare. Ma questa storia di Rina Fort costituisce una eccezione. Se si dice che i cantastorie erano i giornali del tempo è verissimo, nel senso che la gente legge il giornale non per capire il fatto ma per leggere delle storie emozionanti e misteriose di cronaca nera.
I fatti più recenti di cronaca macabra potrebbero benissimo costituire degli spunti per i cantastorie. Quindi la scelta dei repertori era ovviamente influenzata dai gusti del pubblico: omicidi particolarmente raccapriccianti e storie d'amore tragiche. Un grande classico è stato "La barbara ostessa" la donna che da mangiare al marito il figlio cucinato come uno spezzatino di tenero, questa storia ebbe un grande successo. Poi c'è la storia del “Prigioniero tornato dalla Russia”, che è poi la stessa del prigioniero della prima guerra mondiale, la storia viene adattata alle varie guerre, ma fondamentalmente è sempre la stessa, cambiavano solo i nomi dei paesi.
Io direi di dividere la produzione fra nord e sud. Sono due situazioni profondamente diverse. Il Nord aveva una sua produzione di testi per cantastorie con alcuni autori, uno di questi era Domenico Scotuzzi, questi ha firmato un grande numero di storie, era di Milano, le sue storie venivano stampate dalla tipografia Razzini che scompare nel '20. Era in via San Sisto. Scotuzzi era autore non tanto di storie drammatiche ma di storie comico‑satiriche. Era molto ricordato dai cantastorie per la "Teresina di san Colombano". Un testo famoso che è entrato nella circolazione popolare, nel senso che la gente lo ricordava a pezzi non sapendo neanche della sua origine. Lo Scotuzzi non è autore in toto della storia, era già preesistente, lui gli ha dato una forma che si è imposta sul modello originale. Bracali ha lavorato molto, ma in particolare per la tipografia Campi di Foligno.
‑ Quali sono le differenze più salienti fra la tradizione del nord e quella del sud?
Molto diversi sono i motivi musicali, poi c'è il cartellone che è diffusissimo nel sud ed inesistente al nord. Qui al nord il foglio a stampa c'è già nell'800 sia per ragioni tecniche di stampa che per problemi di alfabetizzazione. Era assurdo cercare di vendere un foglio nelle campagne siciliane con il 90 % di analfabeti, mentre in Lombardia nel 1859 quando va via l'Austria, c'era solo il 25% di analfabeti, per cui il foglio volante circolava abbastanza.
Poi c'è il discorso dell'accompagnamento strumentale, fisarmonica al nord e chitarra al sud. Ci sono però delle stampe antiche di cantastorie settentrionali con la chitarra battente, questo nel '700 e a principio dell'800.
Ci sono anche diversità di metrica, abbiamo l'ottava, l'endecasillabo è più una tradizione toscana perché al nord è raro.
Abbiamo anche un mondo diverso di presentare le storie, in Busacca la parte parlata è molto importante, direi fondamentale, in alcune storie occupa quasi tutto lo spazio. Anche al nord è molto importante la parte non cantata, ma rispetto alla Sicilia in misura minore.
Per quanto riguarda le melodie, alcune di queste sono state acquisite dall'800 ad esempio la “Caterinella” o l'aria dell'Orsini che prendevano il nome dalla più famosa delle storie di cui si sono occupate queste melodie; quella dell'Orsini si riferisce a Felice Orsini e risale al 1857. Poi c'è l'aria di Caserio, molto famosa, sulla quale sono state intessute tante storie, perché il metro non cambiava e quindi si adattava facilmente alle varie storie. Negli ultimi tempi furono fatte melodie nuove di stile canzonettistico degli anni '60. Quella sulla vicenda di Piazza Fontana è improntata su uno stile da Festival di Sanremo.
‑ Questa è una caratteristica tipica del nord?
Il cantare sui moduli delle canzonette sì. I modelli siciliani sono più fissi, sono rimasti gli stessi sia pure con qualche variante. Busacca e Strano usano quasi lo stesso modello, il modulo di base è lo stesso. Qua c'erano vari riferimenti: Caserio, Orsini, Caterinella, Paraponzi, venivano usati pochi metri.
‑ Il cantastorie riviveva le storie cantandole?
Il cantastorie era un vero professionista e come tutti i grandi attori era di un cinismo straordinario, non sperava certo che la gente credesse alle sue storie. A questo proposito è di interessante consultazione la relazione su un convegno di qualche anno fa sul contributo alla drammaturgia dei giullari. Abbiamo ripreso tutto intero un treppo in piazza, dei pavesi. Un anno dopo a Como abbiamo organizzato un seminario dove abbiamo invitato il Callegari che ci ha spiegato punto per punto come si svolge un treppo. Egli punta tutto su un gioco di parole, il pubblico lo gioca con un giro di parole. Per fare tutto ciò occorre un'abilità incredibile, bisogna essere dei veri maestri della piazza, c'è tutto un gioco di spettacolo raffinatissimo, per esempio quando vuole stringere il cerchio perché più sono vicini e più li controlla (un cerchio largo sfugge molto). Lui mette dentro una scatola da scarpe dei topolini bianchi e lascia la scatola a terra, chi è dietro non vede e spinge per farsi avanti così il cerchio si stringe. Poi ci sono i "trucchi" per non far andare via la gente, nessuno osava allontanarsi dal treppo per paura di essere malvisto dagli altri. Le cose che dice sono tutte bugiarderie, ma il pubblico è convinto che ogni parola sia onesta, sincera educata e cordiale, ma invece sono cose certo cordiali ed educate ma sincere proprio no.
‑ Per tenere il treppo i vari cantastorie usavano tecniche diverse?
Sostanzialmente no, queste sono tecniche che si tramandano da moltissimo tempo, da secoli e sono veramente spettacolari.
‑ Quali sono le principali indicazioni bibliografiche?
Fondamentale è la rivista di tradizioni popolari "Il Cantastorie": è una vera miniera di informazione e documentazione della tradizione settentrionale, ma anche di quella del sud.
Poi si deve distinguere fra ricerca sul personaggio e ricerca sul repertorio. Nell'ambito del repertorio ci si perde in una miriade di fogli volanti pubblicati dalle varie tipografie. A Torino c'era la tipografia Artale che, se non sbaglio, aveva sede in via Po, fra fine '800 e inizio '900.' Questa tipografia ha diffuso molti fogli volanti di cantastorie, anche il Montagna se n'è servito. Poi c'è il vecchio libro "La piazza". In effetti non è che ci sia molto di indicazioni bibliografiche. Poi ci sono molti articoli sparsi comparsi su varie riviste in occasioni speciali. Ribadisco che un punto di riferimento importante è la rivista di Borghi e Vezzani. A Vezzani non è sfuggito nulla sui cantastorie, almeno per quanto riguarda la tradizione del nord. La rivista "Il Cantastorie" mi risulta essere l'unica rivista di tradizioni popolari che attualmente si occupi ancora della figura del cantastorie.
‑ La televisione si è occupata dei cantastorie?
Forse. Io ho fatto due documentari per la televisione, agli inizi degli anni '60. C'è un film della regione Lombardia sui cantastorie pavesi. Sono due film di un'ora ciascuna intitolato “Gli scarpinanti", è il termine di gergo per indicare gli ambulanti. Uno dei due film è sugli ambulanti, l'altro sui cantastorie. Sono fatti molto bene, con molta serietà, responsabile il dott. Pianta.
‑ I cantastorie padani cantavano solo in italiano?
Fondamentalmente in italiano, c'era il filone dialettale di Marino Piazza delle Zirudele. La Zirudela è una cosa a sé, non faceva parte della tradizione dei cantastorie. È un componimento satirico in dialetto, ne circolano moltissime.
Marino Piazza ha anche inciso una marea di dischi, per trovarli si va alla Montagnola di Bologna il sabato mattino quando c'è mercato, lì il Piazza ha un banchetto di dischi e cassette, naturalmente non vende solo la sua roba. Questi dischetti li hanno solo alla Montagnola.
Poi dai dischi si è passati alle cassette, ma queste hanno perso molto di significato. La cassetta è un prodotto diverso dal disco, diversi i costi, le cose più belle si trovano sui vecchi dischi. Questa produzione era molto importante.
Importante anche il passaggio dalla distribuzione dei fogli volanti alla vendita dei primi dischi, è venuto un momento in cui era molto meglio vendere i dischi. I pavesi però hanno sempre tenuto il foglio e non sono mai passati al disco; avevano la loro tipografia: Campi di Foligno. C'è un pubblico di paese, di provincia che compra le cassette ed alcune si trovano sempre alla Montagnola di Bologna. I pavesi si sono fermati prima, non sono arrivati al disco né alle cassette. Ricordo che la storia di Ermanno Lavorini, il bambino di Viareggio, l'avevano fatta i pavesi, ma non tutta la canzone completa.
‑ La lunghezza delle storie varia da una tradizione all'altra?
Certo. Le storie dei siciliani erano lunghissime, tutto uno spettacolo si concentrava su una sola Storia. Addirittura quella di Giuliano durava venti o trenta ore, la facevano a puntate. La storia dl Turiddu Bella su Giuliano, dura otto o nove ore. La durata media di una storia di cantastorie siciliano è di due ore.
Al nord la situazione era molto diversa, le storie erano più brevi, verso la fine le storie degli emiliani diventavano sempre più corte. Il problema era quello del tempo di arrivare alla "rottura". I settentrionali già dal dopoguerra, dagli anni '50, vanno in crisi come cantastorie, la canzone diventa più che altro un elemento di richiamo per la vendita di prodotti svariati, dalle lamette alle penne biro. Anche gli spettacoli, come le storie, erano andati sempre più accorciandosi, la gente non aveva più tempo per stare in piazza ad ascoltare uno spettacolo di un'ora, quindi il problema del cantastorie era di andare alla rottura. La “rottura” è il momento in cui finisce l'imbonimento e parte la vendita, è un momento delicato e fondamentale. Una volta per arrivare alla rottura impiegavano molto più tempo, la gente si fermava ad ascoltare, era paziente, non aveva fretta. In epoca più recente i cantastorie hanno dovuto stringere i tempi e passare quasi subito alla vendita dei loro prodotti: lamette, immagini di Papa Giovanni e l'acqua benedetta di Lourdes. Callegari pronunciava Lourdes con la "esse" finale, perché si adeguava alla pronuncia diffusa fra la gente.
Io ricordo che qua a Milano gli spettacoli duravano un'ora e vendevano solo il foglio volante, riuscivano a fare l'incasso solo con la canzone. Il vecchio Cavallini diceva: "Allora si facevano più storie e meno canzoni, si intende per canzoni“Romagna mia", "Granada", "Violino tzigano", "Chitarra romana". Quando è avvenuto il fatto della Cianciulli, quella donna di Correggio che da 40 anni faceva sapone con le vicine, della donna fatta a pezzi a Livorno, della Caterina Fort di Milano, della tragedia della squadra del Torino, della bambina caduta nel pozzo a Casale, tutte queste storie andavano molto nelle piazze, ma ora sui giornali se ne leggono molte e sulle piazze vanno di più le canzonette e in più bisogna anche vendere le lamette e le collanine, per arrotondare, per cercare di fare l'incasso. La gente ascolta solo più canzoni alla radio e alla televisione e noi siamo stati quasi seppelliti dalle canzoni". Questa è una testimonianza del Cavallini padre che risale al '62. Ciò significa che negli anni '60 la situazione del cantastorie era già molto allarmante, hanno tenuto ancora un po’ e poi sono scomparsi.
‑ A che mondo appartiene il cantastorie?
A quello dei gerganti, sono quelli che fanno il "gergo" un mondo comune per tanti tipi dì attività: i giostrai, i venditori a banco fermo che sono quelli di frutta e verdura, vengono considerati come se avessero un negozio e poi non c'è l'imbonimento, quindi sono di una categoria inferiore, poi si sono aggiunti anche quelli che fanno il gioco delle tre carte. Per i giostrai il discorso è un po' particolare, perché molti sono zingari sinti. I vari Callegari e Cavallini appartengono alla categoria dei gerganti. Tutti usavano il linguaggio dell'imbonimento, molti non cantavano, ma questo è un mondo comune con i contastorie.
‑ Quali radici storiche ha il cantastorie?
Questo delle radici storiche è un discorso molto delicato, si potrebbe benissimo risalire all'antica Roma o addirittura ancora più indietro. Presentare un lineamento storico del cantastorie è a tutt'oggi una impresa. Lo spettacolo che il cantastorie offriva era molto particolare, senza sovvenzioni, dovevano cercare di fermare la gente e di vendere le storie.
E' un mestiere che andrebbe storicamente visto, non superficialmente ma con una continuità di tecniche e di fini ed un continuo adeguamento e rinnovamento.
Quando Busacca dice che Orazio Strano ha rinnovato, oltrepassando la figura dell'orbo che cantava i miracoli, conferma una rivoluzione profonda. Il cantastorie in Sicilia prima di Orazio Strano non c'è, Strano non è la continuità è l'innovazione certo non dal nulla, la gente non credeva più alle storie di miracoli, erano storie che non si vendevano più.
Una cosa interessante che potresti fare stando a Torino è quella di esaminare i pittori bamboccianti piemontesi, che hanno dipinto decine di scene di piazza di Torino, con fiere, mercati, imbonimenti, suonatori e cantanti e fare una analisi di questi quadri. Bamboccianti è un termine usato dagli storici dell'arte per indicare quei pittori di genere. Ad un certo punto incomincia una committenza privata nel '700 di gente che vuole ville e palazzi e commissionano anche quadri , questi sono da un punto di vista documentario di estrema attendibilità, sono come delle fotografie. Uno voleva la piazza Porta Nuova con la sua fiera e così veniva dipinta, tale e quale.
A Torino ci sono molti di questi quadri al Museo Civico. Il più importanti di questi pittori della metà del '700 è il Graneri. Sono quadri affollatissimi di persone, uno famoso è quello dove c'è un cantastorie. Un altro grande è l'Olivero. In questi quadri sono raffigurati tutti i mercati dì Torino ad esempio quello di Porta Palazzo. Noterai che molti personaggi ricorrono in questi quadri. Questi pittori avevano un repertorio di figure. In mezzo a tutta questa folla c'è una quantità di imbonitori, venditori e suonatori. Io consiglierei come unica premessa storica di esaminare questi bamboccianti piemontesi. Poco si sa sulla storia del cantastorie, tieni anche conto che sui cantastorie piemontesi o torinesi non si sa nulla.
‑ I vigili hanno sempre rappresentato un problema per il cantastorie?
Erano i loro persecutori. Quindi per quando riguarda la parte storica, io piuttosto che avventurarmi in una generica cosa senza sostanza starei nell'ambito del '900 e farei questo lavoro sui documenti iconografici torinesi del '700. Verrebbe fuori un lavoro utile per tutti, ti renderesti conto di come era organizzata la piazza e di che parte avevano i suonatori e gli imbonitori, le piazze sono quelle di Torino, facilmente riconoscibili e raffigurano la vita della città così come si svolgeva in quell'epoca.
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