INTERVISTA A NONO’ SALAMONE

cantastorie

 

effettuata da GIUSI COLMO

 

il 11 novembre 1985 a Torino

 

 

 

 

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO

 

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

 

LETTERE MODERNE

 

“ Storia della Musica ”

 

TESI DI LAUREA

 

“ LA FIGURA DEL CANTASTORIE ITALIANO

FRA PASSATO E PRESENTE “

 

 

 Candidata

GIUSI COLMO

 

Relatore

Prof. Giorgio Pestelli

 

Anno Accademico 1986 – 87

 

 

Interviste a:

 

Cicciu Busacca

Nonò Salamone

Roberto Leydi

Michele Straniero

Gian Paolo Borghi

 

 

Si ringrazia Giorgio Vezzani direttore della rivista “Il Cantastorie”

per l’importante contributo alle ricerche

 

 

 

 

‑  Com’è nata in lei l'intenzione di fare il cantastorie?

 

Quando ero piccolo ero sempre in mezzo a tante carte che erano poi le poesie di mio padre. Vedevo sempre mio padre impegnato a scrivere seduto vicino ad una finestra. Quando succedeva un fatto mio padre prendeva l'occasione per scrivere. Fin da ragazzo, quindi, avevo preso l'abitudine di vedere sempre mio padre impegnato a scrivere. A lui piaceva sentir recitare le sue poesie da me, diceva che meglio di me non le diceva nessuno; già da piccolo mi sono abituato a certe cose e mi sono accorto di avere una certa predisposizione. Una volta aveva scritto una poesia per un sindaco che era stato eletto, durante la festa il sindaco aveva letto lui la poesia e mio padre si era arrabbiato moltissimo perché diceva che la poesia avrei dovuta leggerla io.

 

 

 

 

A quattordici anni mi sono accorto che non potevo più stare nel mio paese e che non potevo certo vivere facendo il cantastorie.

Il mio paese è Sutera, quando sono andato via aveva circa cinquemila abitanti, dovevo decidere che cosa fare nel futuro. Sono partito per Milano, la grande metropoli, avevo voglia di fare qualcosa nel campo musicale ma non potevo fare nulla perché era molto difficile. Poi sono andato in Germania perché a Milano era arrivata la crisi, ed io mi rendevo conto che non potevo comunque diventare tedesco.

Per 7/8 anni mi sono spostato dall'Italia alla Germania e viceversa. Ho scelto dì non restare definitivamente in Germania perché per me era troppo importante conservare la mia identità di italiano.

 

 

              

 

 

In un primo tempo odiavo quasi quello che era il mondo contadino, perché costava troppa fatica e perché non dava nulla in cambio; dopo aver fatto alcune esperienze di lavoro in fabbrica, riscoprii le mie origini contadine.

 

Per molto tempo avevo cantato solo in italiano, avevo fatto alcune cose anche per la televisione, mi riferisco alle canzonette. Facevo il cantante, lavoravo con la RAI ed era un'attività abbastanza ufficiale. Un giorno mi proposero di incidere un disco, il mio produttore aveva piena fiducia, sapeva che avevo molte idee per canzoni in italiano e mi diede piena libertà di scelta. Ricordo che allora lui si trovava a Parigi ed io a Milano con i tecnici e incisi due brani completamente diversi da quelli che cantava abitualmente, erano di tutt'altro genere. Quando tornò da Parigi e sentì questi brani divenne furibondo e disse che gli avevo rovinato tutto. Io da quel momento iniziai definitivamente a cantare in dialetto e inaugurai un nuovo repertorio.

 

Ho scritto la storia della mia vita, tutta in dialetto: la mia partenza dalla Sicilia, gli anni di lavoro in Germania, questa storia è stata il mio lavoro in dialetto siciliano. In questa canzone raccontavo che io scrivevo delle lettere a mio padre dicendogli, che stavo bene e che si stava bene in Germania, erano tutte bugie, poi gli scrivevo che sui treni si viaggiava come bestie e queste erano cose vere. Tutte le canzoni nuove che io scrivevo si avvicinavano molto alle poesie di mio padre.

 

Collaborando con la RAI si ha occasione di conoscere persone importanti, e una di queste mi disse che un regista stava cercando un cantante in dialetto siciliano. Mi sono presentato a questo regista il quale aveva fatto un lavoro sulle poesie di Ignazio Buttitta,

 

 

 

 

-  Uno dei poeti che ha scritto per i cantastorie…

 

Non ero ancora consapevole del fatto che stavo entrando in un mondo nuovo; quello a cui appartenevo e che non avevo ancora capito era il mondo delle mie origini contadine.

 

Questo regista mi diede da musicare alcune poesie di Buttitta, ne risultò uno spettacolo di grande successo. Inizialmente io ero molto scettico perché non pensavo che alla gente potesse ancora interessare un discorso del genere. Il pubblico applaudì molto e i giornali si occuparono di me, perfetto sconosciuto, per la prima volta, escludendo un po' gli attori che avevano partecipato allo spettacolo, così mi resi conto che l'interesse c'era.

 

Quella esperienza per me è stata fondamentale, ho potuto riscoprire me stesso, capire quelle che erano le mie vere aspirazioni. In quei testi di Buttitta c'era la mia storia, la mia vita, c'era la vita del contadino ignorante che non capiva e non sapeva reagire.

 

 

 

-  Si ricorda di aver conosciuto da giovane dei cantastorie?

 

Certo, e i loro racconti mi avevano sempre affascinato, molti successivamente divennero miei amici, come Busacca, Orazio Strano, Trincale; da sempre io ascoltavo i cantastorie affascinato.

C'era anche una sorta di rivalità fra me e i cantastorie, perché pensavo a mio padre che era un poeta e scriveva storie simili e magari anche più belle di quelle dei cantastorie. Comunque fin da ragazzino ero coinvolto dalla figura del cantastorie come tutti gli abitanti del mio paese.

 

Io sono cresciuto fra le poesie di mio padre e amavo la poesia, l'avevo nel sangue. Sicuramente il fatto che proprio mio padre fosse un poeta, anche di cantastorie, mi ha molto aiutato e favorito nell'intraprendere la strada che ancora oggi sto proseguendo. L'ambiente in cui sono cresciuto mi è risultato utile.

 

 

 

‑  Dalle poesie di suo padre ha tratto del materiale?

 

Sì, qualcosa ma non molto e questa è un po' una pecca. Non ho avuto molto tempo per musicare le poesie di mio padre, questo perché i suoi lavori risalgono ad un altro periodo, a un'altra epoca.

Io ho iniziato a fare il cantastorie in un periodo diverso e ho cercato di scrivere dei testi più attuali, le storie di mio padre potevano andare bene negli anni cinquanta, oggi cantarle non avrebbe nessuna funzione, sarebbero solo le storie di mio padre e basta.

 

 

 

‑  Quale repertorio ha seguito?

 

Oltre a mio padre il mio maestro è stato Ignazio Buttitta. Lui ha una linea ben precisa, cerca di mettere a fuoco i problemi della Sicilia, quindi io usando le poesie di Buttitta dico le stesse cose e sono quei valori in cui io credo.

Più canto questi testi, più diventa forte in me questa convinzione e questo legame.

 

E' sempre più difficile trovare persone che scrivono bene ed io continuo ad andare alla ricerca di questa gente.

Quando non trovo nessuno che scrive queste cose, quando mi trovo di fronte ad un muro e non riesco più ad andare avanti, mi sforzo e prendendo esempio dai poeti più bravi, scrivo io i testi e cerco di fare del mio meglio.

 

 

 

‑  Ha cercato di mantenere contatto con la Sicilia nonostante sia stato lontano per molto tempo?

 

Attualmente mi sento quasi più piemontese che siciliano e questo può risultare scandaloso, però le radici sono sempre in Sicilia, mi sento radicato alla Sicilia. Io comunque amo molto il Piemonte. Ormai sono quindici anni che vivo qua, ma questo non vuol dire.

 

 

   

 

 

Ho trascorso alcuni anni in Germania, ma non avevo nessuna intenzione di continuare la mia vita in quel paese, non mi rassegnavo e sarei tornato in Italia a qualsiasi costo.

 

Dopo la Germania sono andato in Sicilia ma purtroppo non ho potuto restarci a lungo perché non riuscivo a trovare un lavoro e così' sono venuto a Torino. Non mi sono trovato male, l'ambiente era buono, sarà perché Torino è una città meridionale comunque non ho avuto nessun problema di inserimento.

Sono stato anche a Milano, ma non mi sono trovato così bene, è troppo città, metropoli, troppo confusionaria, io preferisco di più la provincia e Torino rispetto a Milano è un po' provinciale.

 

Soprattutto la Sicilia sempre, però vista da un siciliano che non vive più in questa regione. La mafia e la droga sono i problemi che io tratto di più. Io cerco di guardarmi intorno e di vedere e capire quello che succede, la vita di tutti i giorni e i problemi grossi come la disoccupazione. Io voglio sentirmi utile alla società in cui vivo, nel migliore modo possibile.

 

 

 

‑  Come è cambiata la figura del cantastorie dal passato ad oggi?

 

Il cantastorie è molto cambiato. Oggi non è più possibile andare a cantare nelle fiere e nelle piazze, non si guadagnerebbe nulla.

Adesso sembra che in Italia ci sia come un'aria nuova, una volontà di riscoprire la tradizione dei cantastorie, molto probabilmente la maggior parte delle persone non sa che cosa è veramente un cantastorie e che funzione ha oggi.

E' positivo, comunque che ci sia questo movimento di riscoperta perché ha permesso a noi che ci definiamo cantastorie di lavorare meglio.

 

A questo proposito devo però puntualizzare che sono gli altri che ci hanno definito così quando ci hanno sentito cantare certe cose. Io non mi sono mai detto cantastorie non sapevo di esserlo, me ne sono convinto piano piano. E' molto positivo che ci siano delle persone che oggi si preoccupano di organizzare sagre e raduni di cantastorie, sono occasioni che ci permettono di capire quale funzione ha attualmente il cantastorie e quanto è cambiato rispetto al passato, in queste manifestazioni, infatti, vecchi e nuovi cantastorie cantano insieme.

 

Un certo legame che li unisce c'è ancora, ma bisogna tenere conto che i vecchi cantastorie erano tutti analfabeti, mentre fra i giovani ci sono pure dei laureati.

Un cantastorie di oggi, con una certa preparazione culturale è abituato a vedere le cose da un'ottica nuova ed è sicuramente diverso dal cantastorie di un tempo, non si esprime più come una volta, usa altri modi, tratta le cose diversamente, non vuole essere un cronista, il giornalista che da le notizie sensazionali, ma vuole avere una funzione più profonda.

 

 

 

 

 

 

‑  Canta sempre in dialetto o anche in italiano?

 

Da quando mi si definisce cantastorie ho sempre cantato in dialetto anche se certe volte è difficile farsi seguire, cantando qua in Piemonte non tutti ti possono capire. Recentemente ad Alba, in una piazza, ho cantato due brani in dialetto siciliano spiegandone prima il significato e mi sono accorto che il pubblico capiva e mi seguiva perfettamente. Trattavo dei problemi seri che interessavano alla gente, a quel punto non aveva tanta importanza il modo della trasmissione ma il contenuto delle storie.

In Belgio ad esempio, io riuscivo a farmi capire anche solo con la mimica, pur cantando in siciliano, prima spiegavo il contenuto ma mentre cantavo io vedevo la gente attenta.

 

 

 

‑  Attualmente quali sono le occasioni che ha un cantastorie per incontrarsi con la gente, ha ancora un suo pubblico?

 

Un tempo i cantastorie cantavano nelle piazze durante fiere e mercati, erano loro stessi ad autogestirsi. Oggi non è più così, si aspetta la cosa organizzata che raduna gente, la quale può essere interessata o no al cantastorie.

In quell'occasione il cantastorie si esibisce con il proprio repertorio, i consensi sono buoni ma devo dire che a molti questo genere di spettacoli non interessano, in particolare ai giovani.

Io li giustifico, hanno i loro interessi e gusti particolari. Le grandi occasioni per il cantastorie sono, comunque, i raduni e le sagre.

 

 

 

 

Poi c'è l'A.I.CA: un'associazione creata da cantastorie che si interessa ai loro problemi, crea delle occasioni di incontro, propone ai vari Comuni iniziative e spettacoli.

 

 

 

-  Esercitando questa attività  ha avuto esperienze particolarmente negative?

 

I momenti brutti sono quando uno pensa di non aver più niente da dire, perché non si riesce più a scrivere, ad essere attuali, ad avere una funzione, quando capita può anche venir voglia di smettere chiedendosi che importanza ha fare questo lavoro.

Invece le soddisfazioni si hanno quando riesce un buon rapporto con il pubblico, quando si crea l'interesse per queste cose in cui uno crede e che vuole comunicare.

 

Mi ricordo, una volta al Politecnico, stavo cantando una canzone che come minimo avevo cantato mille volte, era la storia di Marcinelle, quando una canzone la si canta per tante volte poi si arriva ad un punto che non si riesce più a cantarla, perché ogni volta bisogna viverla e non sempre si riesce a fare questo.

Mi ricordo che arrivato ad un certo punto mi sono dimenticato le parole, completamente, ero arrivato al culmine della storia e non ricordavo più una parola. Ho continuato con la chitarra riprendendo da un punto qualsiasi, stavo dando tutto di me stesso e questo il pubblico lo aveva capito infatti applaudiva quasi con affetto, si era creato fra me e la gente una tensione emotiva veramente unica.

E' stata una esperienza importante. Prima mi avevano detto che in quel teatro si tiravano i pomodori e le uova ma in quell'occasione ho avuto un successo e una soddisfazione unici.

 

Le storie che si cantano bisogna viverle, sentirle, ma in particolare bisogna averle vissute. Devono far parte della propria vita per poterle cantare, non si può fingere.

Il cantastorie deve essere anche attore, un vero attore che entra perfettamente nella parte, non un attore finto. Il cantastorie di oggi non può cantare una cosa che non si sente di cantare.

 

 

 

 

 

 

-  Si riconosce ancora nei cantastorie di un tempo ?

 

Io posso essere un figlio del cantastorie di un tempo, certo l'esperienza dei vecchi è fondamentale per noi giovani del mestiere, è un legame che non si è mai rotto.

Ma noi oggi siamo diversi perché le situazioni e i tempi sono cambiati. Il cantastorie per non morire deve rinnovarsi, guardarsi sempre intorno, essere attuale. Deve svolgere una sua funzione come i cantastorie di un tempo.

 

Ci sono degli anelli di  congiunzione intermedi, come ad esempio i cantastorie che stanno a metà tra il vecchio e il nuovo.

E' così Franco Trincale, lui dice di essere un cantastorie di oggi, ma io lo considero un cantastorie di mezzo. Ci sono molte cose che un cantastorie di oggi non può più cantare ad esempio le storie di delitti d'onore, mentre un tempo era normale la sua funzione di cronista.

Il cantastorie cercava dl trovare il modo migliore per convincere la gente a comprare le sue storie, oggi non può essere né cronista né giornalista e nemmeno può scrivere e cantare un testo tratto da un giornale e messo in poesia, perfetto come lo riporta un giornalista.

 

Oggi il cantastorie può ricavare una storia da una notizia televisiva, ma non si deve accontentare della cronaca, deve andare alle radici, approfondire, interpretare. Questo è lavoro diverso da quello che fa il giornalista, allora tanto vale leggersi direttamente la notizia sul giornale.

 

 

 

‑  Come si organizza il suo lavoro?

 

La principale differenza tra me e i cantastorie di  un tempo è che le musiche delle mie storie sono tutte diverse, le scrivo io direttamente.

Una volta i cantastorie adoperavano motivi tratti da canzoni popolari, la stessa musica veniva usata per tutti i brani o al massimo adoperavano due tipi di musiche con alcune modifiche. Oggi tutti i cantastorie scrivono direttamente le musiche, sono musiche nuove, non troppo difficili ed elaborate.

 

Ignazio Buttitta un giorno mi ha dato un consiglio su come scrivere la musica: "Tu devi pensare che un albero di aranci non può fare pere".

Questo significa che non bisogna abbandonare la tradizione popolare e nello stesso tempo comporre musiche piacevoli da ascoltare, non difficili tecnicamente e trattate in modo attuale. Il cantastorie deve essere sempre molto semplice e spontaneo. Altrimenti si trasforma in qualcos'altro, diventa una pera invece di un arancio.

 

 

 

‑  Quale "procedura" segue nel suo lavoro?

 

Quando leggo un “fatto” questo mi deve particolarmente colpire, poi inizio con la chitarra e di solito l'ispirazione viene  da sè; dopo esamino  quello che ho scritto per vedere se ho rubato qualcosa ad un altro; se mi accorgo che sono stato proprio uno sfacciato, un "ladro", allora cambio e cerco di aggiustarmi, se invece vedo che la cosa può entrare nella norma, la lascio andare per la sua strada. Nessun brano è figlio di nessuno, questo è naturale, in qualsiasi pezzo c'è sempre una influenza esterna.

 

 

 

‑  Quale utilità hanno i raduni di cantastorie?

 

Sono molto importanti e servono. E' molto utile sentire gli altri che cosa cantano, poi in queste occasioni di solito si fanno delle conferenze, dei confronti con gente che è sempre stata vicina ai cantastorie, che ha sempre capito i loro problemi.

Si parla della funzione che ha oggi il cantastorie e di quella che potrà avere in futuro, intervenire in questi dibattiti è molto importante e se ne possono trarre dei vantaggi. Questi raduni sono un'occasione per confrontarsi e per cercare di trovare la soluzione a molti problemi, per trarre forza e volontà di proseguire la strada intrapresa.

 

I problemi e le difficoltà in questo lavoro sono molti, se non si guadagna abbastanza per vivere bisogna smettere e cercare un altro mestiere.

Molti cantastorie sono stati costretti ad abbandonare la loro attività per poter campare, continuano a fare i cantastorie ma non più di professione.

Franco Trincale ad esempio, fa il tassista a Milano, ormai lo sanno tutti, l'ha detto anche agli studiosi come Aurelio Rigoli e ad altri.

Il problema è che i cantastorie non sono salvaguardati da nessuno, nemmeno dalla RAI che ha dato pochissimo spazio a questa tradizione italiana. Avevamo fatto delle proposte alla radio e alla televisione, si pensava ad un telegiornale cantato, tutto per creare occasioni di lavoro per poter vivere e continuare a fare questo mestiere.

 

 

 

‑  Quale circolazione hanno dischi e cassette di cantastorie?

 

Di solito si trovano in bancarella. Il cantastorie non è più popolare e commerciale come un tempo, l'unico modo per poter vendere dischi e cassette rimane quello dello spettacolo, invece di vendere il foglio volante, si vende il disco.

 

Certo un tempo non esistevano questi mezzi e il cantastorie doveva girare molte piazze e aveva sempre il contatto con il pubblico. Indubbiamente qualcosa si è perso, il rapporto con la gente si è un po' rarefatto.

La persona che compra il disco magari lo fa per curiosità, non si sa fino a che punto è interessata. Un tempo c'era molto più attaccamento alla figura del cantastorie, la gente lo ascoltava quasi con venerazione, oggi non è più così. Del resto non può essere altrimenti, la vita continua, le nuove tecniche vanno avanti.

 

 

 

‑  Il cantastorie di una volta girava solo i paesi o anche le città?

 

Era presente sia nei piccoli comuni sia nelle grandi città, però prediligeva i paesi perché trovava di più l'ingenuità e la schiettezza della gente, mentre nella città i giornali circolavano di più.

Nelle città il cantastorie aveva sempre degli obiettivi ben precisi, dei quartieri particolari situati in periferia.

 

 

 

‑  E il cantastorie di oggi?

 

Se oggi in un paese della Sicilia uno si presenta come cantastorie nessuno lo va a sentire, sicuramente. Bisogna prima pubblicizzare il proprio nome per sperare nella partecipazione della gente.

Il cantastorie cronista attualmente non ha più ragione di esistere, tutti leggono e si informano, e al pubblico la figura del cantastorie sotto questo profilo non interessa più.

 

 

 

‑  Cosa si prova a cantare alla televisione?

 

E' certamente brutto, il pubblico della piazza è unico e insostituibile e ti trasmette delle emozioni veramente uniche. Cantando in televisione bisogna pensare che il pubblico è a casa e che ti ascolta anche se tu non lo vedi.

Oggi noi moderni cantastorie dobbiamo cercare di sfruttare i mezzi di comunicazione, i mezzi tecnici che abbiamo a disposizione, tutto per non morire di fame e per non essere costretti a cambiare mestiere.