INTERVISTA A MICHELE STRANIERO

etnomusicologo

 

 

effettuata da GIUSI COLMO

 

 

il 20 settembre 1986 a Torino

 

 

 

 

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO

 

FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

 

LETTERE MODERNE

 

“ Storia della Musica ”

 

TESI DI LAUREA

 

“ LA FIGURA DEL CANTASTORIE ITALIANO

FRA PASSATO E PRESENTE “

 

 

 Candidata

GIUSI COLMO

 

Relatore

Prof. Giorgio Pestelli

 

Anno Accademico 1986 – 87

 

 

Interviste a:

 

Cicciu Busacca

Nonò Salamone

Roberto Leydi

Michele Straniero

Gian Paolo Borghi

 

 

Si ringrazia Giorgio Vezzani direttore della rivista “Il Cantastorie”

per l’importante contributo alle ricerche

 

 

       

 

 

Il primo impatto che ho avuto con i cantastorie è stato con Cicciu Busacca di Paternò. Erano gli anni '60 / fine anni '50 e Busacca prese parte con altri cantastorie, mi pare che ci fosse anche l'altro grande che aveva avuto il titolo di Trovatore d'Italia, Orazio Strano, ebbene parteciparono ad una manifestazione organizzata al Piccolo Teatro di Milano da Valerio Riva e Sergio Balloni. Furono cantate molte storie tradizionali e fu presentata, credo in anteprima, la grande storia d'autore, di Ignazio Buttitta: "Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali" (un giovane sindacalista ucciso dalla mafia a Sciara).

Questa storia suscitava molta impressione cantata dall'ardente Busacca, aveva uno sguardo molto forte, sembrava un moschettiere. Inoltre era il più politicizzato, almeno cominciava ad esserlo; non politicizzato nel senso partitico, ma ad avere coscienza della funzione sociale di questo lavoro.

 

 

Io andai un'estate con lui in Sicilia e girai con lui su una 600 "multipla" rossa, alla quale aveva adattato il porta pacchi in maniera da poter esporre il cartellone con la storia. Si partiva da Paternò verso le quattro del pomeriggio, quando il sole era meno forte, e si raggiungeva uno dei paesi circumetnei, si andava in piazza del paese e lui cominciava a montare il cartellone sulla seicento facendo un po' di pubblicità per la sera. Non cantava la storia, l'annunciava soltanto.

 

 

 

‑  Come l'annunciava?

 

Cantando delle strofe, "viniti viniti è arrivato lu cantastorie" ecc. presentava il programma della serata. Poi si andava a cena e verso le otto o le nove di sera cominciava il suo spettacolo davanti ad una piazza piena. Di solito cantava le sue storie tradizionali, lui aveva scritto una grande storia di Turiddu Giuliano e poi storie di cronaca nera e qualcosa di storico. Vendeva il libretto con i testi.

Dopo quell'estate passata con lui, io curai una edizione di sue canzoni dette alla "carrittera" cioè quelle canzoni che cantavano sui carri i trasportatori di ghiaia o di frutta, e facemmo per la Rifi Record di Milano, che allora era diretta da Giovan Battista Ansoldi, facemmo una collana detta Aria d'Italia in cui uscirono due dischi di Busacca curati da me con queste canzoni alla carrettiera.

 

L'anno dopo uscì la storia di Giuliano per la DNC di Torino. Mi sembra che fossero due dischi grandi, prima fu una serie di piccoli 33 per 17' centimetri e poi raccolta in due dischi grandi.

Dopo rividi Busacca a Milano, lui era entrato in contatto tramite il Nuovo Canzoniere, con Dario Fo e partecipò a "Ci ragiono e canto" non però alla prima edizione, lavoravano alla Palazzina Liberty. La loro collaborazione è durata certamente più di due o tre stagioni, finché è rimasto in forze. Lavorò con lui anche la figlia che avevo conosciuto bambina, Carmelina mi sembra che si chiami, poi sono andati ad aprire un ristorante nel varesotto.

 

Questo è il primo cantastorie che io ho conosciuto ed è anche il più autentico, anche se si è trasferito a Milano, è rimasto il più fedele alla struttura, alla lingua, anche alla forma mentis del cantastorie siciliano.

 

Nel frattempo avevo conosciuto i cantastorie padani, andando al premio nazionale annuale che all'epoca si svolgeva a Gonzaga, io ne ho viste due o tre edizioni.

Ho incontrato cantastorie padani come De Antiquis che avevano lavorato anche a Milano. Ancora una ventina di anni fa, nel '65/'60, nel Parco dietro il Castello Sforzesco, lì si esibivano la domenica mattina, liberamente come se fossero in una piazza di paese. Cantavano con gli amplificatori temi molto amati dal pubblico, ad esempio il “contrasto” tra Kennedy e Krusciov. Qualche decina di persone riuscivano a radunarla e vendevano sia la storia stampata sia le cassette che cominciavano a diffondersi proprio in quegli anni.

 

Proprio negli anni '60 affiancavano i dischi. Mi ricordo un anno a Cannes, dove si svolge il MIDEM (Mercato Internazionale Dell'Edizione Musicale) di aver visto sul Boulevard des Anglais tutti cartelloni che dicevano che anche l'Europa cominciava ad adottare le cassette, un momento preciso dell'industria in questo settore, esistevano tecnicamente, ma c'era il problema di come affiancarle al disco.

 

Dopo non mi è mai più capitato di trovare dei cantastorie di questo tipo a Milano, c'era qualcuno che cantava nelle osterie, ma non erano cantastorie.

Altri ne ho invece incontrati in Toscana, anche in epoca recente, circa dieci anni fa, quando sono andato per fare delle registrazioni nella zona del grossetano che poi mi sono servite per il disco "Osteria Osteria". Ebbene in Toscana ho incontrato nel mercati e nelle fiere dei cantastorie-venditori, venditori non solo delle loro storie, ma di lamette, di sapone, di cose leggere. Affiancavano questa attività di venditori ambulanti con quella di cantastorie.

 

Cantavano non in ottava siciliana, ma in ottava toscana. Io farei questa ripartizione, i siciliani cantano l'ottava siciliana, i toscani l'ottava toscana, i padani la canzonetta, cioè adattano la melodia della canzonetta popolare in voga alla loro storia. I toscani sono i più fedeli alla vecchia struttura e i più persistenti.

Paradossalmente si è modernizzata molto la Sicilia con una urbanizzazione senza controllo. La Toscana si è sviluppata dal punto di vista civico molto prima, però ha conservato una forte paesanità, di calma e di gusto contadino che invece in Sicilia e nelle altre regioni è scomparso o va scomparendo.

 

Molto diffusi i contrasti tra due cantastorie ad esempio sulla storia di “Mussolini all'inferno”. Quindi i repertori dei cantastorie toscani sono ancora legati alla tradizione: ancora oggi si svolgono delle gare in cui il pubblico propone degli argomenti o delle parole e i cantastorie cantano la loro storia. Hanno dei topoi fissi, non è vero che improvvisano. Improvvisare vuol dire riorganizzare ogni volta in maniera diversa una serie di formule, di singole micro strutture modulari che vengono a costruire la nuova storia. I giri di frase, interi versi esistono già e loro li sanno a memoria, vengono adattati all'argomento.

 

 

 

‑  I cantastorie toscani usavano il cartellone?

 

Vendevano i fogli quando avevano la storia già fatta, quando improvvisavano non vendevano niente. Il cartellone serve quando c'è la storia già strutturata tradizionale come i siciliani. Vendendo altri articoli come lamette o biro si inserisce anche il discorso dell'imbonimento, del formulato da Dulcamara dove si magnificano le qualità della merce.

Il discorso del cartellone riguarda solo la Sicilia, che ha una tradizione di cartellonisti specialisti.

 

 

 

‑  Come vede la situazione attuale dei cantastorie?

 

Per quel che ne so io, che non mi occupo specificamente di questo aspetto della cultura popolare, l'ho sempre attraversato occasionalmente perché era impossibile non incontrarlo, ho l'impressione che effettivamente sia in gravi difficoltà. Io, personalmente non voglio fare previsioni sul futuro dei cantastorie, nel senso che non me la sento di dire se sopravvivranno ancora quattro o cinque anni, prima o poi queste cose finiranno come è finito l'impero assiro babilonese. Finiranno ma non in modo così drastico da non consentire certe propaggini e certi ritorni, molto più persistenti di quello che pensano certi teorici.

 

Il lamento sulla fine del folklore è un vizio che hanno alcuni ricercatori e studiosi della cultura popolare, così facendo non l'aiutano di certo.

I cantastorie che ho conosciuto, ora sono tutti invecchiati, i giovani sinceramente non so cosa fanno.

 

 

 

‑  Ha avuto occasione di seguire le Sagre dei cantastorie?

 

Si qualche anno fa, davano il Cilindro come premio al Cantastorie d'Italia, era una cosa un po' patetica. Era un cilindro di lustrini.

Il cantastorie padano, non certo quello siciliano che girava a testa scoperta, usava acconciarsi in modo un po' clownesco e patetico, con la giacchettina e un cappello a cilindro. Credo che derivi da questa tradizione l'uso di dare il cilindro come premio. Io ho visto fare questo negli anni '60 ora credo che non si usi più. Altro fatto è che non ho mai più incontrato cantastorie nelle fiere o nelle feste paesane, cantano solo più in spettacoli organizzati su palco.

 

 

 

‑  Ha notizie di cantastorie in Piemonte?

 

Non ho mai sentito di cantastorie piemontesi, né li ho incontrati c'erano quelli di passaggio che venivano dalla Lombardia. Le zone italiane con tradizione di cantastorie erano: la Sicilia, la Toscana e la pianura padana (mantovano e cremonese).

 

 

 

‑  Perché solo queste regioni?

 

Perché hanno una tradizione plurisecolare e anche una lingua plurisecolare. Non dimentichiamo che in Sicilia e in Toscana è nato il volgare italiano e che proprio in Toscana i contadini recitavano e recitano a memoria l'Ariosto e Dante, i grandi poemi medioevali e cinque­centeschi e questa tradizione sicuramente ha aiutato a mantenere viva anche l'arte del cantastorie che è la continuazione del poeta popolare. In Piemonte questo chiaramente non c'era.

 

 

 

 

 

 

‑  In che termini si può parlare di funzione sociale del cantastorie?

 

Il cantastorie era il giornale, dalla creazione del mondo fino a 50 anni fa. Raccontava le notizie vere, si avvaleva dei moduli che servivano a montare una storia perché è impensabile improvvisare di sana pianta cento ottave.

Per improvvisare cento ottave bisogna sapere l'ottanta per cento di questo testo a memoria, già modulato e poi si inserisce la storia. Questo era fedele, anche quando accadeva un fatto di cronaca nera o di politica, un delitto particolarmente atroce. Subito veniva fatta la storia, e non solo la storia ma anche la canzone.

 

Mia madre si ricorda di cantori che venivano nei cortili a Torino, non erano dei veri e propri cantastorie, ma erano dei cantori da piazza e da strada che raccontavano dei fatti di cronaca nera, entravano nei cortili e cantavano queste canzoni di fatti truci, poi la gente dai balconi gettava i soldi. Tutto questo accadeva negli anni '20. Potevano cantare anche delle canzoni a richiesta della gente. La gente veniva informata dal cantastorie, perché i giornali li leggevano in pochi, solo gli intellettuali.

 

Ricordo di aver visto in Italia meridionale il banditore comunale che dà le notizie. Arrivava con il tamburo e la tromba e iniziava ad annunciare le tasse e tutte quelle notizie di carattere comunale.

 

 

 

‑  Il cantastorie rivive sempre le storie che canta?

 

No, direi che ha un aspetto molto brechtiano, piuttosto freddo. Certo partecipa, ad esempio Busacca si accalora ma non interpretando i personaggi, espone la storia e quindi anche in questo assomiglia ad un giornale, ad un mezzo di diffusione piuttosto che ad un cinema o un teatro.

 

Non ho mai visto nei cantastorie né padani, né toscani e né siciliani la tentazione della sceneggiata. La sceneggiata è una canzone interpretata teatralmente, mentre il cantastorie tende a riprodurre in maniera impassibile la storia che canta, affida al testo la Drammaticità e non all'Interpretazione sua personale.

Busacca, a mio avviso, è uno dei più grandi cantastorie viventi, purtroppo oggi non canta più.

 

 

 

‑  Perché i cantastorie siciliani cantano solo in dialetto?

 

Perché l'uso del dialetto è regolare in Sicilia. In Emilia Romagna il dialetto è più integrato con l'italiano, comunque si canta anche molto in dialetto.

Le canzoni dei cantastorie sono in Italiano perché sono urbanizzati, le fiere sono intercomunali o interregionali e quindi la stessa funzione di informazione e di spettacolo popolare era più utile svolgerla in italiano, come nei lombardi. Questo accadeva nel novecento.

Prima del novecento c'erano i vari Barbapedana che cantavano molto in milanese, quindi in dialetto.

 

In Sicilia, il siciliano è lingua usata, come in Venezia il veneziano, sono lingue che solo di recente hanno visto affiancarsi l'uso della lingua nazionale. Ci sono larghissimi strati della popolazione che non articolano la lingua nazionale, magari credono di articolarla perché a scuola gliel'hanno predicata, la sentono alla radio e alla televisione ma in realtà parlano ancora una lingua fortemente dialettale.

 

 

 

 

 

 

-  I cantastorie di oggi si chiedono come la cultura ufficiale e la cultura popolare li consideri?

 

Questa è una domanda che si pongono in particolare i cantastorie padani, è una domanda che mostra una crisi di identità.

I cantastorie padani operano in una società più urbanizzata e sono quelli che sono entrati più presto in crisi, sia dal punto di vista linguistico, cioè obbligati a cantare in italiano, sia da un punto di vista strumentale, cioè obbligati ad amplificare e usare il microfono, sia da un punto di vista tecnologico cioè adottare le cassette invece dei foglietti.

 

Questo tipo di cantastorie si è sentito man mano estraniato ed ha anche maturato un senso problematico nei confronti del ricercatore, e ciò riflette la problematicità del ricercatore, io personalmente mi divertivo molto di più ad andare a sentire Busacca o i toscani che non i padani. Questo perché una storia in italiano era un prodotto artisticamente ed espressivamente degradato. Non aveva più l'antica nobiltà del testo del cantastorie popolare ma aveva quell'aspetto ibrido che può avere una cosa di plastica, come le riproduzioni artificiali di prodotti artigianali.

 

Dopo, la teoria della ricerca ha rivalutato anche il folklore urbano e quindi un reperto dl cantastorie urbano sia pure degradato e giunto a compromessi con forme di espressività estranee di musica leggera, ha altrettanta dignità quanto una canzone arcaica siciliana, ciò non toglie che il fascino della arcaica canzone sia maggiore.

 

Non è solo una questione di prodotto, ma anche di atteggiamento del soggetto. L'interprete di una storia cantata in dialetto, in linguaggio arcaico in un mondo parzialmente arcaico i cui valori contestuali sono ancora quelli che hanno sostenuto per secoli la cultura contadina, ha un senso di sé, una coscienza della sua identità e quindi anche una dignità della sua funzione, una consapevolezza, una sicurezza molto maggiori che non quella del cantastorie padano buttato ai margini di una strada piena di traffico assordante. Quindi l'atteggiamento, non direi scorretto, ma forse sentimentale del ricercatore, è andato certo con più simpatia ai documenti più arcaici.

 

Dal punto di vista del fascino presenta un materiale di studio di minor interesse, dal punto di vista dello studioso è un materiale di studio alle volte anche più interessante, perché sono tutti problemi nuovi, cioè l'impatto con la città moderna, ma è anche più povero perché il repertorio si è impoverito sia dal punto di vista musicale, sia del testo e paradossalmente anche dal punto dì vista tecnico. Un cantastorie che si abitui a cantare con il microfono e quindi a competere con l'amplificazione, non diventerà mai più un Busacca che doveva cantare a voce spiegata e farsi sentire fino al fondo della piazza.

 

Ancora un argomento importante da affrontare è la divisione della cultura in ufficiale e popolare. Chi si occupava di cultura alta, della poesia colta e scritta, aulica, non sapeva nulla di quella popolare o ne sapeva solo per qualche riflesso.

 

 

 

‑  La figura del cantastorie era però diffusissima in Italia…

 

Si, ma nelle campagne, certo venivano anche in città in occasioni di fiere e mercati, ma anche lì c'era una divisione di classe, c'era una musica e una letteratura delle corti e dei palazzi e una musica e una letteratura dei cortili e delle piazze.

 

 

 

‑  Cosa pensa degli spettacoli organizzati su palco dei cantastorie?

 

Finché c'è un pubblico che li ama e li ascolta i cantastorie continueranno a lavorare. E' un'epoca di transizione e bisogna prenderla con tutte le sue transizioni e quindi con tutti i suoi elementi.

Bene o male tutte le epoche sono di transizione e alcune sono più "transizione" di altre.