LA NAVE GIÀ LASCIA LA RIVA
di Vero ROBERTI
(da "La nave già lascia la riva" - ed. Urbinati)
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(INTRODUZIONE) Nell’ agosto del 1947, trovandomi nella ventosa e rossa penisola salentina, mi spinsi fino al capo di S. Maria di Leuca, dove i miei amici vollero che visitassi il miracoloso santuario di S. Maria de Finibus Terrae, affinchè, entrandovi con l'animo del pellegrino, potessi alfine acquistare l'unico passaporto valido per andare in paradiso.
Fu in quella occasione che incontrai la compagnia ambulante di Salvatore e Aida Mirabile, che aveva innalzato il suo teatro tra il bianco faro e la massiccia costruzione del santuario. Sull’ alta scogliera di quel malinconico tallone d'Italia, i comici rappresentavano un dramma che aveva come protagonista il marinaio Tirindél, il quale recitava la commedia della sua vita.
Salvatore Mirabile era dell’ idea che per fare del buon teatro si dovessero mettere in scena preferibilmente quei fatti e quegli episodi a cui gli stessi attori avessero partecipato. Secondo questa discutibile concezione artistica, la compagnia era spesso e forzatamente mancante dei mezzi scenici più adatti ad ambientare tutto l'intreccio delle sue “ commedie umane". Perciò, quando si presentava una situazione difficile da realizzarsi teatralmente, il protagonista, allora, mostrava al pubblico la scena dipinta su una tela con tutte le persone e le cose, all' usanza dei cantastorie. In questo caso l'attore cominciava a spiegare le illustrazioni e successivamente narrava ciò che sarebbe dovuto accadere.. animando il dipinto con un discorso molto simile a quei recitativi che nel melodramma uniscono i cori ai pezzi.
Le storie di Tirindél, giovane d'età ma anziano di esperienze, mi parvero comuni a tanti italiani e nello stesso tempo così essenziali che chiesi ed ottenni dal capocomico e dal protagonista il permesso di trascriverle in forma piana, ripetendo solo nei punti più salienti le battute dei dialoghi per rendere con ciò omaggio all’ arte della compagnia di Salvatore e Aida Mirabile.
Dal capo di S. Maria di Leuca seguii il cammino dei comici fino a Locorotondo, nella murgia dei trulli. Ascoltai così tutta la commedia di Tirindél, e quando calò il sipario sulle vicende del marinaio, ritornai a casa per ordinare i miei appunti.
Dopo due mesi, mentre stavo per finire il lavoro, ricevetti da Tirindél una lettera nella quale mi annunciava di aver abbandonato il teatro per non aver voluto tradire la fiducia di Salvatore Mirabile. Si era rifugiato a Minori dove, raccogliendo gli aranci, aveva finalmente toccato la libertà. Andai a trovarlo, e dal racconto che mi fece, nacquero gli ultimi capitoli di questo libro che è diventato quasi un romanzo, inaspettatamente.
Roma, 19 novembre 1947. Vero Roberti
(ARGOMENTO) Il marinaio Tirindél, sorpreso a Civitavecchia dall'armistizio, si mette in cammino verso il Sud perchè là gli comanda di andare la sua coscienza. Egli crede nella libertà e verso la libertà faticosamente si dirige. Superata la linea del fronte, Tirindél scopre, con sua grande meraviglia, che anche nel meridione la libertà è pur sempre un mito, e, dopo molte esperienze, viene indotto a pensare che essa sia salita in cielo, tirandosi dietro la scala, per non dover più scendere sul nostro Pianeta. Un giorno, a Brindisi, Tirindél incontra i suoi vecchi compagni di mare, i quali lo convincono che, perdurando lo stato di guerra, la libertà non può ancora trionfare. Allora, si presenta alle autorità e si arruola. Così Tirindél viene mandato nuovamente a combattere, ma questa volta a piedi sulle stesse montagne che aveva già attraversato. Quando il nemico si arrende, s’ imbarca su uno “scarafone", a bordo del quale va in Ispagna. Giunto a Barcellona, rimane profondamente colpito da una riproduzione del famoso quadro del Goya, “el pelele”, esposta in una galleria in occasione del centenario del grande maestro. Nelle quattro donne leggiadre, che si divertono a lanciare in aria il “pelele”, un fantoccio ripieno di segatura, Tirindél vede le quattro libertà, i cui nomi sono scritti sul retro dei biglietti delle sue meschine lirette di occupazione, che nessuno gli vuol cambiare. Nella figura del “pelele”, poi, riconosce se stesso, e se ne rammarica grandemente. Ritornato in patria, ottiene il congedo e s'illude di trovar subito un lavoro, ma invano gira, ramingo, per i paesi del Salento. Il volto degli uomini e delle cose gli sembra mutato; ascolta le parole di tutti e finisce per perdere anche il senso della realtà. Tirindél è ormai un uomo stanco, sconfitto dalla violenza, dopo aver sacrificato all'oscuro potere della forza, speranze, ricordi e giovinezza. Povero e sconsolato, viene raccolto per carità dalla compagnia ambulante di Salvatore e Aida Mirabile, e con successo si mette a fare l'attore. Ma, appena trova un po' di pace, è costretto ad abbandonare il teatro, vittima di un disgraziato ed imprevisto incidente amoroso. Si rifugia, allora, in un paese della costiera amalfitana, presso un compagno di guerra e di mare. Nella serenità del luogo e nella antica saggezza mediterranea, indovina, finalmente, che la libertà è soltanto una condizione fortunata e particolare dell'animo umano. E nella certezza di questa verità, Tirindél va incontro al suo nuovo destino.
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