LO CUNTO DE LI CUNTI
di Gianbattista BASILE
(EDIZIONE GARZANTI – I GRANDI LIBRI)
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L’ULTIMA FELICITÀ DELL’UOMO È IL SENTIRE RACCONTI PIACEVOLI
Presentazione di Gianni Celati
(da http://www.griseldaonline.it/percorsi/6celati2.htm)
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Gianbattista Basile (Parete (CE), prob. 1575 – Giugliano in Campania, 1632) è stato un letterato e scrittore italiano di epoca barocca, primo a utilizzare la fiaba come forma di espressione popolare. Fu detto anche il Boccaccio napoletano. Da giovane fu soldato mercenario al servizio della Repubblica della Serenissima, spostandosi tra Venezia e Candia, l'odierna Creta. In questo periodo, l'ambiente della colonia veneta dell'isola gli permise di frequentare una società letteraria, l'Accademia degli Stravaganti. I primi documenti della sua produzione letteraria pervenutici sono del 1604 e sono costituti da alcune lettere scritte come sorta di prefazione alla Vaiasseide dell'amico e letterato napoletano Giulio Cesare Cortese. L'anno seguente viene messa in musica la sua villanella Smorza crudel amore. Rientrato a Napoli nel 1608, pubblica il suo poemetto Il Pianto della Vergine. Nel 1611 prese servizio alla corte di Luigi Carafa, principe di Stigliano al quale dedicò un testo teatrale, le avventurose disavventure e successivamente seguì la sorella Adriana, celebre cantante dell'epoca alla corte di Vincenzo Gonzaga a Mantova, entrando a far parte della Accademia degli Oziosi. Curò fra l'altro la prima edizione delle rime di Galeazzo di Tarsia. Nella città lombarda fece stampare madrigali, dedicati alla sorella e odi e, nel 1613 le Egloghe amorose e lugubri, seconda edizione riveduta ed ampliata de Il Pianto della Vergine ed il dramma in cinque atti La Venere addolorata.
Tornato a Napoli, fu governatore di vari feudi per conto di alcuni signori meridionali. Nel 1618 uscì L'Aretusa, un idillio dedicato al principe Caracciolo di Avellino e l'anno seguente un testo teatrale in cinque atti Il Guerriero amante. Morì a Napoli, nel 1632. Le sue opere più famose sono scritte in lingua napoletana e si intitolano "Le muse napolitane" e "Lo cunto de li cunti overo Lo trattenemiento de peccerille", noto anche come il "Pentamerone", benché sia stato chiamato così da un editore e non per scelta del Basile. Quest'ultimo, anche nel titolo, si ispira evidentemente alla raccolta di novelle (Decameron) di Boccaccio, ma con alcune differenze: le giornate sono la metà (5 anziché 10) e ridotto alla metà è anche il numero delle novelle (50 anziché 100, tra cui 49 raccontate dalle narratrici più 1 che fa da cornice alla storia).
« [...] al posto delle elette gentildonne favolatrici, Pampinea, Fiammetta, Neifile, qui troviamo Zeza sciancata, Cecca storta, Meneca gozzuta, Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa, Ciulla musuta, Paola scerpellata, Ciommetella tignosa e Iacova squarquoia: un vero e proprio congresso di lamie. È vero che costoro, scelte dal re di Vallepelosa come le migliori della città, essendo le più svelte e linguacciute, favoleggiano nei giardini reali. Ma che giardini reali son questi! Invece di alberi solenni, una semplice pergola d'uva: il giardino reale si riduce alle proporzioni d'un modesto orto suburbano. E che re son quelli dei «cunti» del Basile! Che cosa inventa uno di essi per distrarre la figlia che non sapeva ridere? Niente di meglio che schizzare con una fontana d'olio le persone che passano dinanzi alla reggia. Trovata allegra degna di quello che doveva essere un re napoletano, il re Lazzarone, che per mettere il buonumore addosso alla delicata sua sposa, le toglieva di sotto la sedia facendola cadere. (Il che dimostra che Ferdinando I fu un prodotto inevitabile di quello stesso ambiente che produsse le fiabe del Basile.) Un altro re deve abitare in un ben curioso palazzo, se non può fare uno sbadiglio senza irritare due vecchiacce che vivono in un giardino su cui guardano le sue finestre. Un altro se ne sta affacciato alla finestra per trovar marito alla figlia; e v'è un principe che rapisce la bella non già su un cavallo alato, ma su un modesto asino, e ve n'è un altro che fa alle sassate coi monelli di strada. [...] » (Mario Praz, Il «Cunto de li cunti» di G.B.Basile, in Bellezza e bizzarria. Saggi scelti, Mondadori, Milano, 2002)
Il Cinquecento è il secolo in cui la novella diventa un genere letterario riconosciuto, di moda, e un genere che tutti si sentono di poter praticare - un po’ come succede col romanzo al giorno d’oggi. Cosi diventa una forma ufficiale, ancora ibrida, ma ufficializzata dall’uso, e con libri che stabiliscono cosa sia e come si debba scrivere una novella. Nel 1573 è dato alle stampe un Decamerone ripulito nella lingua e nelle parti licenziose, messo in regola secondo i canoni dei libri correnti, e secondo un’uniformità letteraria ormai prescritta. Si capisce che la novella boccacesca è una memoria illustre, ma con una vivacità fuori epoca, che stona con gli stili in voga. Una cosa che si può notare negli stili dei novellieri cinque-seicenteschi, è una patina d’indifferenza sistematica che avvolge i loro testi, rendendoli quasi tutti come appiattiti nello stesso stampo oratorio, con una sparizione della singolarità del diverso. Qui sto cercando d’abbozzare un panorama di fondo senza nessun valore critico, ma che mi serve per far capire quale miracolo sia stato l’apparizione di Lo Cunto de li cunti di Basile, nell’anno 1634. Lo cunto è nello stesso tempo un seguito della tradizione boccaccesca, e la fine di questa tradizione con l’apertura verso un altro genere – quello della fiaba.
Come in nessun’altra raccolta di racconti per trecento anni, qui si vede riapparire la festosità del narrare e l’ebbrezza dell’illusorio. E questo per un effetto regressivo, con il ritorno a un prima della novelle, al tipo di racconto minimo e più elementare: quello per bambini, affidato da tempo immemorabile alle nonne. Dice una narratrice di Boccaccio: “Quando c’invecchiamo, né marito né altri ci vuol vedere, anzi ci cacciano in cucina a dir delle favola colla gatta e noverare le pentole e le scodelle” (Decamerone, V.10) Quel genere infimo diventa uno spettacolo di parole, un intrattenimento senza nessuna volontà di narrare i “fatti del mondo”, e che svuotandosi di senso prende il senso d’una parodia generale del milieu per cui è stato confezionato. Dice Michele Rak, che le fiabe di Basile erano scritte per riempire le conversazioni del dopo pasto, come gioco cortigiano inteso a far sorridere la smorta nobiltà napoletana. E pensando alla storia della principessa che non riusciva a ridere, con cui il Cunto si apre, c’è da credere che la festosità barocca fosse più o meno arenata in simili secche. Ma la felice ebbrezza che attraversa questo libro viene da un’altra parte; viene dal dialetto napoletano, dalla raccolta di modi di dire napoletani, e dalla raccolta di fiabe delle nonne, per la prima volta ordinate e raccontate in modo da farne veramente un genere. E in tutto questo fin dall’apertura si sente l’eco del sapere di Shahrazad, il sapere del narratore-guaritore che sa tenere il tempo sospeso con l‘artificio delle parole, allontanando di racconto in racconto l’incombenza della morte: “L’ultima felicità dell’uomo è il sentire racconti piacevoli, perché ascoltando cose amabili, gli affanni evaporano, i pensieri fastidiosi vengono sfrattati e la vita si allunga” (Basile, Cunto, Apertura.)
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