LA PIAZZA UNIVERSALE DI TUTTE LE PROFESSIONI DEL MONDO
di Tomaso GARZONI
( EINAUDI EDITORE )
Presentazione di Gianni Celati all’Istituto Italiano di Cultura di Chicago, marzo 2001.
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È un libro di millecinquecento pagine, pubblicato a Venezia nel 1585, che a suo tempo ha avuto fama europea, e il cui titolo completo dice: “La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo e nobili e ignobili, nuovamente formata et posta in luce da Thomaso Garzoni da Bagnacavallo”.
Da giovane lo leggevo nelle biblioteche perché non esistevano edizioni in commercio, e mi pareva di aver scoperto una miniera di parole italiane sconosciute, comiche, auliche, provinciali, gergali, dei mestieri, delle scienze e delle truffe, tanto da comporre un dizionario grosso e bizzarro come quello del Premoli.
Potevo leggerlo soltanto a spizzichi, sia per l’enormità dell’opera, sia per l’ammassata erudizione che rendeva insormontabili molte sue pagine. Tornavo sempre alle sue scene della piazza pubblica: le descrizioni degli spettacoli di attori ambulanti, ciarlatani e venditori di fumo; dei saltimbanchi, buffoni, mimi e istrioni; delle puttane, dei ruffiani, dei borsaioli, degli imbroglioni, dei pellegrini che raccontano spudorate invenzioni su reliquie raccolte in Terra Santa. Era un mondo tutto fatto di maschere, niente e nessuno che non fosse una maschera, sulla piazza di Tomaso Garzoni. Poi mi attirava la vena comica dell’autore, che spesso ricorda quella di Rabelais, nel gusto di masticar parole, sempre un po’ straparlando. Garzoni infiltra questa vena qua e là nei discorsi eruditi, di solito per perorare contro truffatori di tutte le professioni, da moralista che gode a trovare espressioni colorite, gergali e umoristiche. E si ha l’impressione che questo autore - romagnolo, nato e vissuto nel paesino di Bagnacavallo, canonico ligio alla propaganda del Concilio di Trento, in realtà amasse specialmente parlare di truffe e imbrogli, in quanto anche la sua arte di scrittore aveva molto dell’imbroglio.
Da giovane cercavo e trovavo in questo libro il romanzo picaresco, il romanzo dell'esistenza come truffa perpetua, che rende inutili i giudizi morali, perché il gusto di sentirla raccontare è già un'adesione all'essenza illegale della vita.
Di volta in volta mi contentavo di qualche pagina, ma ricordo bene le sensazioni di stordimento che mi lasciava la lettura. Provo a dire di cosa si tratta. È un panorama di parole, di figure, di maschere, di attività, di abitudini, di vizi, di aneddoti sparsi, che dà un’impressione simile a quella dei quadri di Brueghel: d’uno sparso brulichio in una piazza enorme dove tutti convengono a recitare la loro parte, gesticolare e chiacchierare e far spettacolo. Uno spazio che non ha un centro perchè in ogni direzione spuntano altri spettacoli, mestieri, chiacchiere, giochi. Per farmi capire meglio prendo un esempio dal Discorso CIV, dedicato agli attori della commedia dell’improvviso e ai ciarlatani che smerciano le loro gabbole sulla piazza pubblica. Si intitola De’ formatori di spettacoli in genere, e de’ ceretani o ciurmatori massime.
«Ma chi vuol raccontare minutamente tutti i modi e tutte le maniere che adoprano i ceretani per far bezzi, avrà preso da fare assai…. da un canto della piazza tu vedi il nostro galante Fortunato insieme con Frittata cacciar carotte, e trattener la brigata ogni sera delle vindidue fino alle vintiquattro ore del giorno, finger novelle, trovare istorie, formar dialoghi, far caleselle, cantare all’improvviso, corrucciarsi insieme, far la pace, morir di risa, alterarsi di nuovo, urtarsi in sul banco, far questione insieme, e finalmente buttar fuora i bussoli, e venire al quamquam delle gazzette che vogliono carpire con queste loro gentilissime e garbatissime chiacchiere. Da un altro canto esclama Burattino che par che il boia gli dia la corda. Col sacco indosso da fachino, col berettino in testa che pare un mariuolo, chiama l’udienza ad alta voce; il popolo s’appropinqua, la plebe s’urta, I gentiluomini si fanno innanzi…. Fra tanto sbuca fuor de’ portici il Toscano, e monta con la putta, smattando come un asino Burattino e il suo Graziano. Il circolo si unisce intorno a lui, le genti stanno affisse per vedere e ascoltare. Ed ecco in un tratto si dà principio, con lingua fiorentinesca, a qualche papulata ridicolosa…»
La Piazza Universale parla di tutti i mestieri immaginabili. Non soltanto delle professioni serie, del retore, del filosofo, dell’architetto, dell’avvocato, del musico, del pittore, ma anche e soprattutto dei mestieri che si dicevano “meccanici”: fabbri, sarti, tessitori, fornai, muratori, lanaioli, levatrici, barbieri, vasai, tintori, intagliatori, pescatori, asinari, caprari, osti, etc. E inoltre di attività sociali non moralizzate, come quelle delle meretrici, dei puttanieri, dei giocatori d'azzardo, dei banditi, degli sgherri, dei ciarlatani, dei maldicenti, degli oziosi di piazza, e perfino degli innamorati. E infine dei mestieri loschi, mescolati più o meno con l’imbroglio, decisamente aggrediti dalla sferza di Garzoni, degli alchimisti, degli astrologi, degli esorcisti, degli indovini, dei maghi. Questo libro è una città che si espande attorno al una piazza, dove si contemplano costumi e abitudini con cui sta insieme una popolazione. A suo modo è un libro etnografico, a cui hanno fatto ricorso studiosi di teatro, studiosi dei costumi, studiosi della lingua, folkloristi, per trovare notizie su abitudini dimenticate da secoli.
In realtà però tutto ciò di cui Garzoni parla ha il senso del meraviglioso, la retorica dello strabiliamento. Basta vedere come presenta la sua Piazza Universale: "Or se vi piace di riguardare alquanto questo edificio mostruoso, mirate quanta gente accoglie insieme, e, della frequenza del popolo stupite d'una Piazza la più rara, forse, e la più celebre che al mondo vi sia..." Si nota il tono dell’imbonitore da fiera, che straparla a rotta di collo per attirare il pubblico. Ma si nota anche l'aggettivo "monstruoso", che qui indica la meraviglia del "monstrare", il prodigio di far apparire certe cose inusitate, alla maniera dei maghi. Forse nessun libro italiano, dopo il poema di Ariosto, si affida in modo così spregiudicato al potere incantatorio delle parole, con una piena torrenziale dove i discorsi dotti si impastano con spiegazioni e battute di sapore colloquiale. Pedante e polemico anti-pedantista, incantato dai prodigi fantastici e spregiatore di tutte le "fantasie ridicolose", fanfarone che dà del suo agli altri denunciando dovunque ciurmadori, istrioni che ingannano il mondo, in realtà Tomaso Garzoni ha ancora l'idea stregonesca che le parole abbiano in sé un potere magico: che possano fare prodigi, alterare il corso delle cose, creare grandi incanti che strabiliano tutti.
Come dice Cherchi, i discorsi sui mestieri di questo libro sono tutti slegati, senza un ordine riconoscibile, “tanto che ogni lettore può farsi un piano di lettura, scegliendo e organizzando i discorsi a suo piacimento”. La Piazza universale è una città di parole, con strade fatte di parole che ci portano a gironzolare di qua e di là, soffermandoci dove ci sono gli emblemi dei mestieri, appesi in forma di cartigli o insegne che annunciano i vari capitoli o discorsi. Immaginato così, il libro di Garzoni diventa un’opera dall’aria baroccamente moderna, a metà strada tra un’etnografia fantastica e un labirinto romanzesco di discorsi che si incrociano attraverso i suoi personaggi.
Il modo slegato di Garzoni nel suddividere i mestieri della vita quotidiana, mi fa pensare a una veduta estremamente moderna, cioè non legata a un ordine gerarchico di valori (religiosi o altro), e dunque dove può trovar posto anche l’elemento qualsiasi. Si potrebbe pensare a un palazzo dove tutto è esposto a pari merito, il vile e il sublime, il serio e lo sboccato, l’autentico e il falso, il veritiero e il truffaldino, l’utile e l’inutile, le cose importanti e le cose qualsiasi.
Sarebbe un palazzo in cui crolla ogni interiorizzazione (ogni valore interiorizzato, dunque scontato), ma un palazzo anche eminentemente immaginario, simile a una seicentesca Wunderkammer piena di reperti, di cose qualsiasi d’ogni giorno, messe in mostra soltanto per pura accumulazione. Questo è l’aspetto più singolare del libro di Garzoni: l’accumulazione di parole, il fatto che le parole siano usate come puri materiali da ammassare sulla pagina, per cui le pagine diventano magazzini di parole, senza un’idea direttiva di tipo narrativo (cioè con episodi sviluppati come itinerari da un prima a un dopo), o trattatistico (un argomento, sviluppato come un itinerario di ragionamenti). C’è qui un’idea quasi quasi nominalistica della lingua, perchè in accumulazioni così fatte ogni nome non riguarda un ordine generale di cose, ma una cosa singola perché collegata alla singolarità della pratica d’un mestiere. Questo avviene quando si fanno inventari di cose qualsiasi, cose usuali, ma specifiche secondo un contesto particolare. Come esempio di inventari riferiti ad aspetti singolari d’un mestiere, prendo il Discorso CXXXXIII, che parla del mestiere del fornaio: “E al suo mestiere s’appartengono il pane, le fugazze, le pizze, le torte, le ciambelle, onde vengono i zambellari, le bracciatelle (o bianche o zuccherate o forti), i biscotellli, i burlenghi, il biscotto, le nevole, i storti, gli occhietti, le festa, le offelle (onde vengono gli offelari), i sosamelli, i mostazzoli, le fogaccine, i ritortelli, i cialdoni (onde vengono i cialdonari), uve secche, peri cotti, i confertini (da’ quali son dimandati i confertinari)…”
Ricordo un discorso del nostro grande etnologo Ernesto De Martino, in “Il mondo magico”. L'incredulità o l’incomprensione che abbiamo per le magie di sciamani o stregoni d’altre culture, diceva, dipende da questo: che noi solitamente diamo per scontata l'esistenza d’un mondo di fatti, oggettivamente dato, in cui tutto si distingue in "reale" e "irreale"; mentre per altre popolazioni neanche la natura è già data in forma stabile, ma sempre come qualcosa da stabilizzare, da manipolare con fabulazioni, esorcismi, incantamenti, sacrifici, formule. Il linguaggio non ha nessuna sostanza oggettiva nei suoi modi di significare; niente è mai stato detto che non abbia un fondamento immaginativo o fantastico o simbolico; ed è come se l'uomo, ai suoi estremi limiti di finitezza, vivesse soltanto in forma di parole. Ed ecco il discorso di Garzoni sulla Storia, sulle storie dei grandi uomini, identico a quello di Ariosto: se gli storici o i poeti non avessero favoleggiato di re, eroi, imperatori, niente esisterebbe di quegli atomi di mortalità; i quali rimangono nelle menti degli uomini soltanto grazie alle manipolazioni di menzogne e meraviglie che facciamo con le nostre recite.
Gianni CELATI |
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