NOMADI
di Gary JENNINGS
(Edizioni BUR)
Presentazione di KRAZYKAT
( da www.ciao.it )
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Ci sono scrittori che hanno la fortuna, e la bravura, di segnare un punto decisivo nel panorama dell’immaginario; riescono a piazzare un best seller, a volte meritato ed a volte no, e poi continuano a lavorare professionalmente, con amore e dedizione, maturando sempre più rispetto all’opera prima che, si sa, magari soffre ancora di alcune ingenuità stilistiche e testuali, mentre in seguito, normalmente, si tende a migliorare. Normalmente, beninteso, perché c’è anche chi sfonda una volta ed una sola con un colpaccio, e poi si riposa sugli allori, o assolda ghost-writers, e via di questo passo.
Gary Jennings è uno di quei fortunati che meritano ogni recensione positiva scritta su di loro. Questo scrittore statunitense, classe ’28, ex corrispondente di guerra in Corea, si è specializzato nel romanzo storico, verso il quale ha un atteggiamento tutto particolare: ogni volta che un’idea si fa strada nella sua fervida immaginazione dedica diversi anni a documentarsi meticolosamente, esaustivamente sull’argomento che dovrà andare a trattare; poi riunisce il tutto in un insieme coerente, aggiunge la giusta dose di curiosità, sesso e violenza, agita e serve. Romanzi corposi, impegnativi.
E fin qui niente di strano, direi. Anzi, è la prassi più comune, la strada che seguono tutti: valga per tutti l’esempio di Tom Clancy, il quale prima di scrivere “La grande fuga dell’Ottobre Rosso” sapeva a malapena che i sommergibili stanno nell’acqua; poi, con un paziente lavoro di documentazione, ecco nascere un bel romanzo, poi un altro o due bellini, poi una macchina da parole composta da dozzine di “negri” sul lavoro dei quali lui appone la firma ed un impero del marketing, dai videogiochi alle riduzioni cinematografiche … ahem …
No ,la cosa strana è che nel caso di Jennings funziona; la qualità del lavoro rimane sempre piuttosto elevata, i libri continuano ad essere dei best sellers e Jennings ancora non ha tirato definitivamente i remi in barca, e sì che se lo potrebbe permettere…
Il suo primo libro, l’ultracelebre “L’Azteco”, che concorre per il titolo dei cento libri migliori del secolo (e non è poco), nasce da un soggiorno in Messico durato ben 12 anni, nel corso dei quali Jennings studia (da perfetto autodidatta qual è) antropologia, arte, storia e lingua del Paese che lo ospita, si butta a corpo morto sui reperti archeologici, ne sviscera i segreti e fa in modo che, a centinaia di anni di distanza, essi tornino a raccontarsi. Il risultato è un libro folgorante, nel quale rivivono in maniera convincentissima persone e fatti di un epoca lontana e tuttora poco conosciuta; storia e fiction si mescolano in un tutto omogeneo che non cessa di lasciare stupiti neppure oggi, a tanti anni dalla pubblicazione della prima edizione.
Non è inconsueta questa tecnica, che potremo chiamare “fantastorica”; ma per usarla con successo ci vogliono una preparazione storica e letteraria di prima grandezza, l’equivalente di un paio di lauree con master, per intenderci, più una fantasia meravigliosa, più una capacità di immedesimazione ed una sensibilità umana terribile, oltre, ovviamente, alla capacità di fondere tutto ciò in qualcosa di concreto e di leggibile! Per citare qualche esempio di successo potrei fare i nomi di Guild “L’Assiro”, ”Ninive”), Forsyth (pensate all’immortale “Il Giorno dello Sciacallo”), la tanto bistrattata, e stupefacente, Mc Cullough (che non ha solo scritto “Uccelli di Rovo”... se avete mai letto la sua saga della Roma antica … brividi … ). In molti altri ci provano, ma i risultati sono a volte spiacevolissimi, a volte semplicemente ridicoli: non è che se uno scrive un migliaio di pagine il libro deve per forza essere bello! Altri sono assolutamente sopravvalutati. Penso ad esempio al Ken Follett dei “Pilastri della Terra”, che segue questo filone, ma ad un confronto serio non regge venti pagine…
“Nomadi” (titolo originale, “Spangle”: dal Dizionario Cambridge: ” a small piece of shiny metal or plastic, used esp. in large amounts to decorate clothes”, in una parola: lustrino, paillette) è il terzo lavoro di Jennings, per preparare il quale l’autore si è messo a viaggiare per alcuni anni con ben nove Circhi, americani ed europei,prima di decidere di essere pronto a buttar giù la prima riga.
Il romanzo prende l’avvio nell’anno 1865, al momento della resa dell’Esercito Confederato al termine della Guerra di Secessione americana. Il colonnello Zachary Edge ed il sergente Obie Yount sono liberi di “ tornare in pace alle loro case” sulla promessa di non combattere mai più, solo che … non hanno nessuna casa alla quale tornare. Il Sud che li ha visti partire fieramente non esiste più, è spogliato e reso sterile dalla guerra, le campagne sono state devastate, le città distrutte e spopolate. In questo scenario da incubo i due, oppressi oltre che dai prosaici problemi quotidiani legati alla sussistenza anche dalla delusione della sconfitta, della morte di un ideale, incrociano la loro strada con quella di un Circo itinerante, dal nome magnificente di “Fiorente Florilegio di Florian” e dalla realtà piuttosto scalcinata: un nano, un elefante, un acrobata, un idiota, due cavallerizze, un domatore,una zingara,un leone spelacchiato… Il tutto non contribuisce a sollevare il loro morale, anzi, lo spettacolo è abbastanza degradante. Dal momento che le alternative sono inconsistenti i due si uniscono comunque alla miserabile compagnia, alla quale fanno molto comodo perché sono in possesso di due buoni cavalli, e si adattano a far parte dello spettacolo.
Strada facendo, però, avviene una trasformazione assolutamente magica. C’è una enorme differenza tra quello che Florian vede quando guarda la sua misera compagnia e quello che vede, in principio, Zachary Edge; ma man mano che condivide la vita degli artisti, che si industria per risolvere i mille problemi quotidiani (non ultimo quello del mangiare), che si trova ad improvvisare mille ruoli e mille parti scopre che lo spettacolo del Circo non è solo un illusione,ma è condivisione di un sogno. E, poco a poco, la sua vita si trasforma; apprende che dietro ad ogni nome dato ad una cosa c’è una tradizione a volte millenaria, che dietro ad ogni azione, per semplice che sia, c’è tutto il mestiere, l’amore e la disperazione che un uomo può mettere in qualcosa che è tutto, per lui.
Il Circo avanza in mezzo a mille difficoltà, tra tragedie, colpi di fortuna, sorprese e rancori, tenuto assieme dalla tenacia dei singoli componenti che dimenticano se stessi affinché lo spettacolo possa sempre continuare e dalla incorruttibile fiducia del Padrone del Vapore, Florian, che in un certo senso è la stessa ingenua anima del Circo, o perlomeno ne rappresenta la parte più poetica e più buona,senza per questo mai dimenticare le pratiche crudeltà necessarie al quotidiano svolgersi delle attività, che d’altronde non sono altro che l’essenza stessa della vita : mangiare o essere mangiati.
Ad ogni tappa la compagnia, come un fiume che corre verso il mare, si ingrossa di altri affluenti e perde rivoli, nascono amori, muoiono amici. Attraverseranno il mare e approderanno in Italia, e poi di qui su su verso l’Austria, la Germania, poi fino alla misteriosa Russia, e di nuovo giù, verso climi più caldi e verso la Mecca di ogni artista di Circo, Parigi la grande, la bella, la magnifica, patria dei girovaghi e dei saltimbanchi.
“Nomadi” è un romanzo così bello e completo che mi sono spesso chiesto se si tratti della narrazione di una storia realmente accaduta, o se è una pura invenzione dell’autore. Ma,naturalmente, mi sono posto la domanda sbagliata. I fatti del Circo, le sue disgrazie ed il suo fascino sono gli stessi ovunque, sono cose che da bambino immancabilmente ci affascinano, per poi continuare ad ammaliare solo pochi tra di noi, tra cui devo dire che non figuro io, incapace, a dispetto del mio desiderio di sognare, di dividere l’illusione dalla cruda e prosaica realtà della segatura, del sudore, delle miserie degli animali da abbattere e della tristezza dei camerini che rimangono vuoti, di un mestiere di sacrificio, sempre legato al caso, all’alea del momento. No, il mio mondo fantastico si trova altrove, sinceramente.
Però, quello che rivive su queste pagine (e dico rivive non a caso, perché l’abilità dello scrittore è tale che mentre scorrete le pagine cominciate voi pure a fare parte di questa compagnia itinerante) è talmente affascinante che non ho potuto fare a meno di affezionarmi ai personaggi, o di odiarli, se del caso, di chiedermi cosa avrei fatto io in determinate circostanze, e così via. Insomma, mi sono immedesimato, perché è un libro che è in grado di portarvi direttamente sulla scena degli avvenimenti,di farvi toccare con mano. In grado di emozionare, il che non è davvero poco.
E’ un libro facile da leggere, nonostante la mole; non vi trascina mai in descrizioni infruttuose, non vi dà mai la sensazione di farvi perdere tempo o di tergiversare, non usa volutamente frasi o parole criptiche. Idealmente suddiviso in tre libri (così come è stato edito in America), da noi è stato messo sul mercato da Rizzoli, nella collana BUR (oltretutto ad un prezzo contenutissimo, intorno ai 10 Euro) in una unica soluzione che lo rende pratico e trasportabile. Non è la lettura che consiglierei ad un bambino per via dei molti periodi crudi: un po’ per dare brio al racconto ,un po’ per non nascondere sotto al tappeto niente di quello che accade in una comunità, sesso, violenza e morte comprese, Jennings non lesina sugli effettacci. Ma con sicuro garbo e con sapiente mano. Non esagera mai, mai e poi mai, non vi troverete mai a pensare, oddio, ci risiamo, come ad esempio nei romanzi di Van Lustbader (Ninja e seguiti, interminabili, fatti con lo stampino: una scopata, venti morti, due scopate, quaranta morti e così via).
Se è la prima volta che lo leggo? Naturalmente , no. L’anno scorso mi sono infilato uno dopo l’altro tutti i romanzi di Jennings, e questo mi è rimasto in memoria. Qualche mese fa ne ho trovati diversi (“Il Viaggiatore”, ”L’Azteco”, ”Predatore” e questo) sulla solita bancarella dell’usato a mille, duemila, tremila lire, e adesso che sono tornato dalle ferie avevo bisogno di un vecchio amico per poter sopportare il peso del ritorno alla quotidianità, deprimente, del mio impiego semifallimentare… Credo che “Spangle”, il titolo originale, rifletta maggiormente della traduzione italiana lo spirito della storia. Il lustrino, quella cosa che si applica su tessuti altrimenti scialbi, che coi mille scintillii cattura la vostra attenzione e vi acceca, vi parla di magìa, e allo stesso tempo nasconde quello che si cela sotto, la trama sfilacciata, il sudore, la fatica, il lavoro di mesi bruciato in pochi minuti sotto ai riflettori … e per molti, quei pochi minuti sono un’illusione, un sogno che vale una vita.
Bello, bellissimo il concetto della fama transitoria delle piste anguste e mal illuminate, coi volti tirati delle trapeziste che si allargano in stanchi, raggianti sorrisi, bella la paura del domatore solo nella sua gabbia, che ama i suoi animali ma non può permettersi di giocarvi, bello il silenzio, quando tutta la gente se ne è andata via e hai finito di spazzare la pista, e prima di andare a dormire ti siedi al freddo del cielo invernale su di una balla di fieno e ti dici, è stato bello. E per pochi applausi, strappati in tutti i modi, con l’imbroglio, con la bravura, con la fatica decidi che, sì, anche oggi hai lavorato, e non sai se vorresti lavorare altrimenti.
Mi piace chiudere questa così come Jennings chiude il suo libro: coi ringraziamenti a tutti i Circhi che lo hanno accolto come uno dei loro, per insegnargli quello che si cela dietro alle apparenze, ed in particolare alla nostra Moira Orfei.
E coll’epitaffio che Florian ripete, in mancanza di una fede ben definita ma tributando l’onore massimo, alla breve, secca cerimonia che accompagna la dipartita di ognuno dei compagni persi lungo il cammino :
Danzò, divertì. E’ morto.
Che era riferito ad un artista dell’antica Roma, alla sua morte.
SALTAVERUNT PLACUERUNT MORTUUS SUNT OMNES.
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