LA MADRE DEI MOSTRI

 

di Guy de MAUPASSANT

 

( da “ Racconti fantastici ” – OSCAR MONDADORI - 1983 )

 

 

 

 

Mi sono ricordato di quella terribile storia e di quell'orribile donna vedendo passare l'altro giorno, su una spiaggia preferita dai ricchi, una parigina assai nota, giovane, elegante, affascinante, adorata e rispettata da tutti.

 

La mia storia data già da un'epoca lontana: ma certe cose non si dimenticano.

 

 

 

 

 

Ero stato invitato da un amico a trattenermi qualche giorno con lui in una cittadina di provincia. Per farmi gli onori del paese egli mi portò in giro dappertutto, mi fece vedere i panorami celebrati, i castelli, le industrie, i ruderi; mi mostrò i monumenti, le chiese, le vecchie porte scolpite, certi alberi di proporzioni enormi o di forma strana, la quercia di sant' Andrea e il tasso di Roqueboise.

Quand'ebbi esaminato con esclamazioni d'entusiasmo tutte le curiosità del luogo, il mio amico mi dichiarò, con un viso mortificato, che non c'era più nulla da vedere. Respirai. Avrei dunque potuto riposarmi un poco all'ombra degli alberi. Ma d'improvviso egli diede in un grido:

«Ah! c'è ancora la madre dei mostri: bisogna che te la faccia conoscere.»

Domandai:

«La madre dei mostri? Che roba è?»

 

 

 

 

 

Egli riprese:

«E una donna satanica, un vero demonio, un essere che ogni anno dà alla luce volontariamente un essere deforme, schifoso, spaventoso, un mostro, insomma, e lo vende al proprietario di baracconi da fiera. Questi abietti industriali vengono di quando in quando a informarsi se ella ha prodotto qualche nuovo aborto, e quando trovano il soggetto che fa per loro, se lo portano via pagando una rendita alla madre. Ella ha undici rampolli di questa natura. È ricca. Crederai ch'io scherzi, che inventi, che esageri: nient'affatto. Ti racconto la pura, l'esatta verità. Andiamo a vedere questa donna. Poi ti dirò com'ella sia diventata una fabbrica di mostri. »

 

 

                                   

 

 

Mi accompagnò alla periferia.

La donna abitava una bella casetta allineata lungo la strada: un posticino grazioso e tenuto bene. Il giardino pieno di fiori odorava. Si sarebbe detta la dimora di un notaio ritiratosi a vita privata. Una serva ci fece entrare in una sorta di salottino di campagna, e presto comparve la megera.

 

Aveva circa quarant'anni. Era una persona alta dai lineamenti duri, ma ben fatta, sana e robusta, il vero tipo della contadina vigorosa, metà bruto metà donna.

Sapeva la riprovazione che la circondava e sembrava ricevesse i visitatori con un'umiltà astiosa. Domandò:

«I signori desiderano?...»

L'amico cominciò:

«Mi è stato detto che l'ultimo vostro nato era normalissimo, che non assomigliava affatto ai fratelli. Ho voluto accertarmene. E vero?»

Ella ci diede un'occhiata ambigua,e furibonda e riprese: «Ah, no, no, mio buon signore. E forse anche più brutto degli altri. Non ho fortuna, non ho fortuna. Tutti così, mio buon signore, tutti così! È una desolazione! Possibile che il buon Dio sia tanto duro con una povera donna sola al mondo? Possibile?»

 

 

 

 

 

Parlava in fretta, tenendo gli occhi bassi, con un'aria ipocrita, simile a una belva impaurita. Addolciva il tono aspro della voce, ed era stupefacente che quelle parole lagrimose e dette in falsetto uscissero da quel gran corpo ossuto, eccessivamente sviluppato, dalle linee grossolane, che sembrava fatto per gesti violenti e per ululare a guisa d'un lupo.

L'amico domandò:

«Vorremmo vedere il piccino.»

Mi parve che ella arrossisse. Sbaglio, forse? Dopo qualche attimo di silenzio disse alzando un po' la voce:

«A che cosa servirebbe?»

 

 

                                        

 

 

Aveva sollevato la testa, e ci squadrava con certe occhiate rapide e piene di fuoco.

Il mio compagno riprese:

«Perché non volete farcelo vedere? Ci sono ben altre persone alle quali lo mostrate, e voi sapete di chi parlo!»

Ella ebbe un sussulto, e togliendo ogni freno alla voce e alla collera gridò:

«Dite un po', è per questo che siete venuti? Per insultarmi? Perché i miei figli sono come bestie, vero? Non lo vedrete, no, non lo vedrete; e andatevene, andatevene! Si può sapere che cosa avete tutti quanti per tormentarmi così?»

Ci veniva incontro, con le mani sui fianchi. Al suono brutale della sua voce rispose dalla stanza vicina una sorta di lagno o meglio di miagolio. Sentii un brivido fino nelle midolla.

Arretravamo di fronte a lei.

L'amico disse con un tono severo:

«Fate attenzione, Diavola» il popolino la chiamava così «fate attenzione! un giorno o l'altro questo sistema vi porterà sfortuna.»

Ella si mise a tremare dal furore, agitando i pugni, sconvolta, urlando:

«Andatevene! Che cosa mi poterà sfortuna? Andatevene, razza di maleducati!»

Stava per saltarci al viso. Scappammo, col cuore in gola. Quando fummo fuori, l'amico mi domandò:

«Hai visto? che te ne pare?»

Risposi:

«Raccontami la storia di questa belva.»

Ed ecco quello ch'egli mi disse mentre tornavamo a lenti passi sulla grande strada bianca fiancheggiata dalle messi già mature che un vento leggero, passando a intervalli, faceva rabbrividire come un mare calmo.

 

«Una volta quella donna serviva in una fattoria: era operosa, seria ed economa. Non si sapeva che avesse amanti, né si sospettava fosse leggera. Commise un fallo, come fanno tutte, una sera di mietitura, tra i covoni falciati, sotto un cielo temporalesco, quando l'aria immobile e pesante sembra piena d'un calore da fucina e bagna di sudore i corpi abbronzati dei giovanotti e delle ragazze.

 

 

                         

 

 

Presto s'accorse d'essere incinta e si sentì torturata dalla vergogna e dal timore. Volendo nascondere a qualunque costo la sua disavventura; si stringeva il ventre in modo violento con un sistema di sua invenzione, camicia di forza fatta d'assicelle e di corde.

Più il grembo le s'ingrossava coll'inoltrarsi della gravidanza, più ella stringeva lo strumento di tortura soffrendo il martirio, ma forte di fronte allo spasimo, sempre sorridente e alacre, senza lasciar scorgere o sospettar nulla.

Storpiò nelle proprie viscere il piccolo essere costretto dalla macchina orrenda: lo compresse, lo deformò, ne fece un mostro. Il cranio schiacciato s'allungò, e si appuntì, e gli occhi enormi sporgevano dalle orbite. Le membra oppresse contro il corpo si svilupparono contorte come tralci di vite, s'allungarono smisuratamente, terminate da dita simili a zampe di ragno. Il torso rimase piccolo e rotondo come una noce.

Ella partorì in un campo una mattina di primavera. Quando le sarchiatrici accorsero in suo aiuto e videro la bestia che le usciva dal corpo, fuggirono gridando. E nella contrada si sparse la voce che ella aveva messo al mondo un démonio. Da quel giorno la chiamano Diavola.

 

 

 

 

 

Fu licenziata. Visse d'elemosina e forse di amore nell'ombra, poiché era un bella figliola e non tutti gli uomini hanno paura dell'inferno.

Allevò il suo mostro che del resto ella odiava d'un odio selvaggio, e che forse avrebbe strangolato se il parroco, prevedendo il delitto, non l'avesse spaventata con la minaccia della Giustizia.

Orbene, un giorno, certi proprietari di baracconi da fiera, passando di qui, udirono parlare dello spaventevole aborto e domandarono di vederlo per eventualmente scritturarlo. Lo trovarono di loro gradimento e versarono alla madre cinquecento franchi in moneta sonante. Vergognosa a tutta prima, ella rifiutava di lasciar vedere quella sorta d'animale: ma quando s'accorse che poteva fruttarle, che eccitava il desiderio di quegli individui, cominciò a mercanteggiare, a discutere soldo per soldo, invogliandoli col mostrare le deformità di suo figlio, alzando il prezzo colla tenacia del contadino.

Per non essere truffata fece con loro un contratto regolare.

Quelli s'impegnarono a versarle in più quattrocento franchi annui, come se avessero preso a servizio quella bestia.

 

 

 

 

 

L'insperato guadagno tolse il senno alla madre, e da quel momento il desiderio di mettere al mondo un altro fenomeno, e costituirsi una rendita come qualsiasi brava borghese, non la lasciò più. Poiché era feconda, riuscì nel suo intento, e a quanto pare divenne abile nel variare le forme dei suoi mostri facendo subir loro differenti pressioni durante la gravidanza.

Ne ebbe di lunghi e di corti, gli uni simili a granchi, altri a lucertole. Parecchi morirono ed ella ne fu afflittissima.

La Giustizia cercò d’intervenire, ma non fu possibile appurare nulla, ed ella fu lasciata fabbricare in pace i suoi fenomeni.

 

Attualmente ne possiede undici vivi e vitali, che, un anno per l'altro, le rendono cinque o seimila franchi. Uno solo non è ancora collocato, quello che non ha voluto farci vedere: ma non le rimarrà a lungo, perché ella è ormai conosciuta da tutti i saltimbanchi del mondo, che di quando in quando vengono a vedere se la Diavola ha qualche cosa di nuovo.

Quando il soggetto ne vale la pena, ella organizza delle vere e proprie vendite all'asta.»

 

L'amico tacque. Sentivo in cuore un profondo disgusto e una collera violenta, un rammarico di non aver strozzato quella belva mentre l'avevo a portata di mano.

Domandai:

«Ma il padre, chi è?»

Rispose:

«Non si sa. Egli, o essi, hanno un certo pudore: egli, o essi, si nascondono. Forse dividono gli utili.»

 

 

 

 

 

Non pensavo più a quel lontano episodio, quando l'altro ieri su una spiaggia alla moda scorsi una donna elegante, affascinante, civetta, amata, circondata d'uomini che la rispettano.

Camminavo sul greto a braccetto con un amico, il medico della stazione balneare. Dieci minuti dopo vidi una governante che custodiva tre ragazzi accoccolati sulla sabbia.

Un paio di stampelle che giaceva per terra, mi colpì: allora m'accorsi che i tre piccoli erano deformi, gobbi e rachitici, repellenti.

Il dottore mi disse:

«Sono i prodotti della graziosa signora che abbiamo incontrato poc'anzi.»

Sentii nell'anima una profonda pietà per essi e per lei. Esclamai:

«Povera donna! Ma come mai le è ancora possibile ridere?»

L'amico ribatté:

«Non compiangerla, amico carissimo. Da compiangere sono i suoi poveri bambini. Ecco i risultati della linea mantenuta fino agli ultimi giorni. Quei mostri sono fabbricati col busto. Ella sa bene che in quel gioco arrischia la vita, ma che le importa, pur d'essere bella e amata?»

E io mi ricordai l'altra, la campagnuola, la Diavola che, lei, li vendeva, i suoi fenomeni.