( da “Collezione di sabbia” – OSCAR
MONDADORI – 1994 )
Un orso bianco che sbrana
una fanciulla campeggia nei manifesti d'un'esposizione dedicata ai fatti di
cronaca («Le fait divers», Parigi, Museo delle Arti e Tradizioni Popolari). I
casi eccezionali che suscitano l'emozione delle folle sono presentati non dal
punto di vista della storia del giornalismo, ma come forma moderna di folklore.
L'orso bianco proviene da
un'illustrazione del «Petit Journal» del 1893 che rappresenta il «Suicidio di
Francoforte sul Meno»; suicidio fuor del comune, descritto dalla cronaca
concisamente ma con dettagli sadici di sicuro effetto: una giovane domestica
disperata per amore va allo zoo, si spoglia, entra cantando nella fossa della
belva che si getta su di lei.
Una parte
considerevole del materiale esposto proviene dal supplemento
illustrato del «Petit Journal» che con le sue tavole a colori
sarà il modello della «Domenica del Corriere» (con una trentina
d'anni d'anticipo: il «Petit Journal» comincia nel 1863, la
«Domenica» nel 1899). Vi vediamo tigri ed elefanti che scappano
dai circhi, tragedie dantesche nelle fogne di Parigi, un
assassinio passionale in una macelleria, un suicidio dentro una
tomba, un altro suicidio mediante una ghigliottina fatta in
casa, un uomo nudo in cilindro e favoriti che entra in un locale
elegante mentre le signore si tappano gli occhi. Primato nella
visualizzazione della notizia (sia pur ricostruita
dall'immaginazione d'un illustratore) che anticipa film
d'attualità e televisione, ma anche primato linguistico e
soprattutto concettuale, se è vero che il termine «fait divers»
appare per la prima volta sul «Petit Journal».
Il periodo
abbracciato dalla mostra rimonta però molto più indietro, a
partire dai fogli stampati con rozze incisioni e testi
rudimentali che si vendevano nei mercati nel Settecento, con
storie e immagini di banditi e di delitti, e che continuano per
larga parte dell'Ottocento, col nome di «canard». Il termine
«canard» cioè «anitra» per dire «storia inverosimile e
probabilmente falsa» è presente da secoli nel francese popolare,
e non se ne sa l'origine; c'è chi dice che i venditori di «canards»
nelle fiere s'annunciassero con un suono di cornetta che pareva
un grido d'anatra, ma l'etimologia non è provata. Fogli simili
ai «canards» sette-ottocenteschi continuano fino al nostro
secolo, con mezzi grafici non molto più evoluti, e diffondono le
strofe di canzoni su fatti d'attualità. Per esempio, nel 1909,
il terremoto di Messina, raffigurato con rovine di templi romani
che schiacciano la popolazione.
Il
personaggio che domina questa documentazione è naturalmente il
trasgressore della legge: briganti delle campagne e, a partire
dall'Ottocento, la malavita della metropoli, ma anche gli
assassini individuali, per danaro o per passione o per follia.
Apprendiamo che la parola «chauffeur», che per noi evoca le
immagini dinamiche ed eleganti dell'automobilismo inizio secolo,
ha avuto tra Sette e Ottocento un significato terrorizzante: si
chiamavano «chauffeurs» i briganti che assaltavano le case di
campagna e bruciavano i piedi delle vittime per obbligarle a
rivelare dove avevano nascosto i soldi.
Il fascino
che il fuori legge e il criminale esercitava sull'immaginazione
(in un'epoca in cui il crimine non era ancora diventato
un'industria come un'altra) è provato anche dalle cartoline
illustrate che raffigurano banditi e assassini famosi: il
celebre fatto di sangue tra «apaches» per i begli occhi della
bionda «Casque d'Or» (che ispirerà un bel film di questo
dopoguerra) è rappresentato come un fotoromanzo in una serie di
cartoline del 1907. Così nel 1913 le effigi della «Bande à
Bonnot» passano anch'esse sulle cartoline illustrate.
Non è solo
la crudeltà del delitto a eccitare la curiosità, ma anche, da
sempre, il suo contrappasso, la crudeltà della punizione. La
ghigliottina è un grande tema dell'iconografia popolare (e delle
canzoni); una serie di cartoline illustrate con la obiettività
di tristi fotografie in bianco e nero ci tramanda una panoramica
della prigione, una veduta d'insieme dello strumento, dettagli
della lunetta e del paniere, e perfino un'inquadratura del
garage dove l'arnese veniva custodito nei periodi di riposo: lo
spirito burocratico-tecnologico del principio di questo secolo è
qui documentato nel suo volto più depressivo.
L'usanza
degli antichi carnefici di vendere la corda degli impiccati come
amuleto si continua in un macabro culto delle reliquie dei
ghigliottinamenti. Qui viene esposto, incorniciato e sottovetro,
un assemblage
che contiene il colletto del maglione e quello della
camicia tagliati per la toilette prima dell' esecuzione a
Caserio, l'anarchico autore dell' attentato mortale al
presidente Carnot (1899). (Sui particolari di questa toilette
durante la Rivoluzione francese si sofferma il film
Danton di Wajda che si proietta in questi giorni a Parigi).
L'assassinio, come la santità, produce reliquie: il mobilio
della casa di Landru fu messo all' asta nel 1923 e naturalmente
il prezzo che toccò cifre più alte fu quello per la famosa
cucina a legna in cui Landru si sbarazzava dei resti delle sue
«fidanzate». Apprendiamo che fu pagata «40 mila lire da un
italiano». (Sarà in Italia? Dobbiamo considerarla un Bene
Culturale da tutelare?)
Il
processo è il momento in cui l'evocazione del fatto di sangue e
quella della pena sono presenti insieme, ed è proprio partendo
dal processo che la cronaca suscita le emozioni popolari. Non è
un caso se molta di questa documentazione ruota attorno ai
«processi celebri», che già dal 1825, con l'inizio della «Gazette
des Tribunaux», possono contare su un giornalismo specializzato,
che ispirerà a sua volta tanto i grandi scrittori, da Stendhal a
Balzac a Sue, quanto i romanzieri d'appendice.
L'«humour
noir» intorno a delitti ed esecuzioni ha una circolazione non
solo tra gli spiriti blasés, ma anche nella stampa
popolare: nel 1884, si presenta un «Giornale degli Assassini»,
«organo ufficiale degli Accoltellatori Riuniti» («Abbonamenti: a
mezzanotte, agli angoli di strada») che non so se sia andato più
avanti del primo numero.
Le
«locande insanguinate» dove gli albergatori assassinano i
clienti nel sonno e li bruciano nella stufa sono un altro
«topos» che dalla cronaca criminale della profonda provincia
francese dell'Ottocento passa alla letteratura e al teatro
(ultima versione Le malentendu di Camus). La più famosa è
stata la locanda di Peirebeille dove i coniugi Martin e il
domestico Rochette detto il Mulatto fecero scomparire un numero
di persone che non fu mai stabilito con precisione, per poi
essere ghigliottinati nel 1833 sul luogo stesso dei loro
crimini. Non ci voleva di più perché l'albergo divenisse in
seguito un'attrattiva turistica, con cartoline e souvenirs.
Queste
storie sanguinose forniscono la materia prima mitica di cui
s'impadroniscono la letteratura popolare (che segue da vicino la
cronaca con dispense a 10 centesimi sui delitti famosi
romanzati), i drammi nel teatro specializzato che riceve la sua
macabra suggestione dal nome del Boulevard du Crime dov'era
situato (immortalato nel film di Carné Les enfants du Paradis),
i manichini di cera del Museo Grévin, poi il cinema: è tutta
una dimensione dell'immaginazione che dalla Francia passa nella
mitologia universale del mondo moderno.
(In Italia
la materia prima non mancava; ricordiamo l'antologia di Ernesto
Ferrero La mala
Italia uscita anni fa da Rizzoli; solo che non abbiamo avuto una civiltà
letteraria - o semplicemente un'inclinazione fantastica - che
sapesse trasfigurare tutto questo).
Ma il «fait
divers» studiato dall' esposizione parigina non comprende solo
la cronaca nera. (Questa distinzione tra cronaca «nera» e
«bianca» è, se non sbaglio, solo italiana). Ne fanno parte anche
gli atti d'eroismo, d'abnegazione, di coraggio, soprattutto i
salvataggi. Una collana d'opuscoli nel 1787, alla vigilia della
Rivoluzione, era dedicata alle «Virtù del popolo»: episodi in
cui personaggi umili si distinguevano in «tratti d'umanità» a
conferma delle idee di Rousseau sulla bontà naturale degli
esseri umani.
Non solo
gli estremi dell'animo umano nel male o nel bene, ma ogni fatto
che esce dalla norma serve a far notizia, «fait divers»:
l'arrivo della prima giraffa a Parigi nel 1827 è un avvenimento
che per anni continua a venire istoriato in xilografie e
litografie, in almanacchi, su piatti di maiolica, su tegami di
rame.
Poi i
fenomeni viventi, che dall'antichità portano con sé l'aura del
prodigio, del segno degli dèi. Su mostri, sirene, nani, giganti,
fratelli siamesi l'esposizione non è molto ricca, ma c'è un
pezzo che certamente non si vede tutti i giorni: un «busto
naturalizzato» di donna barbuta (di circa un secolo fa), cioè
non un ritratto ma la vera testa della donna, imbalsamata dopo
la sua morte per intenti di documentazione scientifica e cui
l'imbalsamatore, in uno scrupolo insieme «artistico» e
cavalleresco, ha cinto il collo d'un collettino di pizzo
ricamato.
Della
cronaca fanno parte naturalmente incidenti e accidenti d'ogni
genere, tanto più pregiati quanto più rari o nuovi. Ecco i primi
incidenti d'auto: una vettura che precipita su un treno espresso
(in America: lo sfondo è di montagne rocciose, la vegetazione
esotica).
Molte
delle copertine del «Petit Journal» mostrano figure umane mentre
stanno cadendo, sospese a mezz'aria, in volo: cade uno
spettatore a teatro dal loggione in platea, cade un aeronauta
dal pallone, vola una donna dalle lunghe gonne attraverso una
finestra («dramma della follia»), vola da un'altra finestra un
«nuovo Icaro» cosparso di piume.
E le scene
di violenza e di delitto sono raffigurate sempre a base di
braccia levate che brandiscono pugnali o coltelli. L'avvenimento
che sconvolge l'ordine naturale delle cose si situa in un
momento che è come fuori dal tempo, un movimento fulmineo che
resta fisso per sempre.