IL  MERCATO

 

di Francesco GUCCINI

 

(da "L’ uomo che reggeva il cielo" – ed. Libreria dell’ Orso)

 

 

 

 

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Ma voi lo avete mai visto un mercato? Un mercato di quelli di una volta, dico, non quelli di oggi dove sembra che tutto sia uguale, e nella ripetizione degli stessi arti­coli trovi le stesse cose a chilometri di distanza, identi­che e noiose, e l'unica traccia esotica sono i banchetti dei venditori di candele con profumi strani ma così simili fra loro, le paccottiglie orientali o africane, le mostrine e i quasi residuati bellici di ex eserciti dell'Est europeo, che ormai, dopo le sorprese delle prime volte, sono già venuti a noia.

Una volta, anzitutto, per andare al mercato ci si vestiva di nuovo, col vestito buono, della domenica. Ci si lavava la faccia con più cura, ti pettinavano con la leccata finale di un poco d'acqua, a tenerti fermi i capelli sempre arruffati, ti mettevano calze e camicia bianche. Già quel prepararsi era emozione, di quello che sarebbe stato, di quello che si sarebbe visto. Poi si partiva, le primissime volte col barroccio a ruote alte che il nonno adoperava per i commerci e conduceva in piedi, ma dopo, barroccio e cavallo venduti a chissà chi, in corriera. C'era da fare un chilometro a gambe, per prenderla, ma allora si macinavano chilometri ogni giorno, tant' è vero che a volte si ritornava anche, a piedi, sotto il sole estivo di mezzogiorno e carichi di roba, ma non te ne accorgevi nean­che, e il calore e la sete si spegnevano, in furia, in quella ramaiolata d'acqua di pozzo buttata giù così avidamente che te la sentivi correre per la gola, a rinfrescarla tutta, e arrivare fin nello stomaco, quasi con un tonfo.

La corriera era piena, non come ora che viaggiano semivuote; la gente scendeva dalle case isolate, dalle frazioni disperse, e si radunava lì, alle fermate, le sigle delle varie compagnie di trasporto diventate quasi nomi propri, della corriera stessa, e tutti cominciavano a raccontarsela, a salutarsi ad alta voce, preannuncio del mercato che stava per arrivare.

 

 

     

 

 

Cos'era, per un bambino d'allora, il mercato? Anzitutto gente, tanta, che tanta così non ti sembrava d'averla mai vista. Era più facile distinguere classi sociali e appartenenze, allora, non soltanto nel vestire ma anche nel modo di parlare, di gesticolare, dai visi più o meno rugosi, dalle abbronzature più o meno accennate. C'erano le donne della montagna, ancora con gli abiti d'una volta, forse quello con cui si erano sposate, e che spargevano attorno a sé odore di naftalina, di chiuso d'armadio, coi capelli tenuti da una reticella e spesso in mano il fazzolettone rosso e blu a quadroni, ripiegato sulle quattro cocche. C'erano le signore del paese dove si teneva il mercato, più moderne, emancipate, che le avresti dette cittadine, e parlavano anche una lingua diversa, e fra di loro si chiamavano signora. Signora, pensate! Quelle altre erano solo l'Amabilia o la Càttera o l'Argìa, nomi così, solo col nome.

C'erano, razza a parte, privilegiata, i villeggianti, che passavano fra i banchi con signorile superiore distacco. Poi vedevi i mediatori di bestiame, ti stupivano le loro sceneggiate, fra i due contadini che vendevano o comperavano la mucca o il maiale o il pezzo di terra, loro di altra categoria ma furbizia identica, zanetta col manico ricurvo infilato al polso destro, fazzoletto al collo, preferibilmente rosso, («due soldi di più, ma che sia rosso!», si diceva) tenuto fermo da una spilla con perla probabilmente falsa, catenone dell' orologio (oro?) che andava da taschino a taschino del gilet, di solito di velluto a coste, come il resto del vestito, e cappello in testa che sembrava non dovessero togliersi mai, ti immaginavi lo portassero anche a letto, indossato spesso di traverso, sulle ventitré, come dicevano.

Discutevano, avanzavano e arretravano, muovevano le braccia, danzavano quasi, in una curiosa antica danza, cercavano di unire le mani dei due contadini, perché non c'era bisogno di tanti notai, la stretta di mano, magari dopo averci sputato sopra, se un uomo era un uomo suggellava il patto, lo santificava, altro che fogli di carta o legali. E le mani stavano per unirsi, poi uno dei due, indeciso, non contento, la ritraeva, e allora iniziavano di nuovo il balletto, le lusinghe, le mediazioni, finché, ma dopo ore, quella stretta di mano avveniva, c'era, e le mani dei mediatori si appoggiavano su quelle dei clienti e il tutto veniva mosso enfaticamente su e giù, a sancire il patto definitivo.

 

 

 

 

In un angolo del mercato c'erano le venditrici di conigli, pollame e uova, donne dall'aspetto decisamente contadino con i panieri pieni di merce, le corbe colme di pulcini, di pollastri, di anatre, quelle donne tutte a rimediare qualche soldo contante, che di quelli, in una atmosfera sotto molti aspetti ancora di baratto, ce n'erano sempre pochi, ed erano così importanti, per acquistare le cose di prima necessità come il sale, i fiammiferi, qualche stoffa, le scarpe, tutte le cose insomma che la gracile economia di montagna non poteva procurare direttamente. C'erano i venditori di piantine e sementi, oggi quasi perse fra i fiori, che di quelli si fa più commercio, ma allora i fiori non erano cosa da comprare, se non quelli per una cresima-comunione, o un matrimonio o, arrivati alla fine, per il Camposanto.

E si guardava senza necessariamente comperare, era per avere un'idea generale, dei prezzi, delle tendenze, del mercato. Quando poi si doveva veramente comperare, prima si faceva il giro di tutti i banchi che offrivano lo stesso oggetto, per paragonare, poi, scelto quello che sembrava il migliore, iniziava la lunga discussione, un'arte che non esiste quasi più, una commedia, una recita. Il prezzo del commerciante suscitava reazioni disperate e drammatiche nell'acquirente. Voleva veramente rovinarlo, era senza cuore, era fuori di testa, a chiedere quel prezzo? Sicuramente sarebbe bastato fare un piccolo giro, e quello stesso oggetto lo si sarebbe trovato decisamente migliore, e a un prezzo a dir poco più umano, decisamente meno esoso. Qui veniva il turno del commerciante, che, bastava chiedere un po' in giro, era sicuramente il più onesto di quanti mai fossero apparsi su quella stessa piazza, e non era lì per derubare la gente. Messo alle strette, per accontentare il cliente, a scapito della fame che avrebbe atteso la sua figliolanza, poteva abbassare la somma richiesta, ma di poco poco, proprio per non rimetterci. Gli veniva risposto che se voleva prendere in giro la povera gente andasse da altra parte, quel prezzo, anche abbassato, era sicuramente fuori discussione, e si faceva il cenno di andare via. Il commerciante allora usciva precipitosamente dal banco e rincorreva il cliente, lo prendeva per un braccio e abbassava ancora il prezzo, ma solo per fare del bene, non perdere la clientela, non lasciarla andare a casa senza quello stupendo e robustissimo oggetto, anche se a vendere così al di sotto del guadagno avrebbe fatto meglio a chiudere tutto e andare a casa.

L'acquirente tornava, abbassava ancora, il commerciante rialzava, e dopo un tempo che oggi ci sembrerebbe impensabile (ma veramente il tempo aveva un'altra dimensione) lo scambio veniva effettuato, si aprivano remoti portafogli e le poche lire (ma sembravano tante) passavano di mano in mano e la merce, avvolta in carta raccogliticcia, incamerata in una borsa, in una sporta, nel fazzolettone.

 

 

                                         

 

 

Poi, ogni tanto, sulla piazza del mercato si presentavano i cantastorie. Allora non c'era televisione, e anche la radio era poca poca, roba da privilegiati. I cantastorie erano i giornalisti che davano le notizie, vere o fasulle che fossero, erano i clown, gli uomini di spettacolo, la vera piazza del mercato con le sue tradizioni più antiche. In due o in tre, facevano "treppo", cioè radunavano gente attorno, con poco e niente: un banco con sopra la merce da vendere, di solito i "fogli volanti", ampi fazzolettoni di carta con su i "fatti", cioè le storie drammatiche, e le "zirudelle", quelle allegre e spesso boccaccesche, uno strumento musicale o due, qualcosa di sgargiante e diverso nel vestire, una bombetta, un gilet colorato, anche uno strumento musicale insolito, non conosciuto, tipo la sega sonora, qualcosa che attirasse l'attenzione e radunasse gente. Ma lo strumento principe era la fisarmonica, che permetteva di fare accompagnamento e di cantare quelle loro storie di omicidi efferati, tipo:

 

"Se i cannibali sono feroci

una donna li può somigliare

e una madre li può superare

per l'infamia del barbaro cuor"

 

che è la storia della Barbara ostessa, madre vedova divenuta spietata assassina della figlioletta per amore del suo giovane amante. Non solo, perché così forse non bastava, e al Grand Guignol doveva aggiungersi qualcosa di più macabro, di più ad effetto. La madre cucina la figlia e la serve come spezzatino ai clienti e tutti mangiano e nessuno se ne accorge, anzi tutti dicono: «è buona davvero, ne vogliamo un'altra porzione», quando un cliente si rende conto che qualcosa non va, nell' intingolo servito: «Cara ostessa venite un po' qua», quasi affabile, mondano, e così recita alla donna: «io un piccolo dito ho trovato nella carne ch' è ancora nel piatto..».

 

 

            

 

 

Segue la dovuta e giusta punizione. Ma c'erano anche reduci dalla Russia che apparivano anni e anni dopo, minatori miracolosamente salvati da uno scoppio, e figliolette sempre con madre crudele ma più fortunate e salvate dal fido cane lupo o per intercessione di un santo miracoloso, tramite la collanina benedetta che la piccola quasi vittima portava al collo, agnizioni e apparizioni, ma soprattutto delitti, come quello raccontato fra i più efferati e macabri possibili, tanto che un cantastorie interrogato sulla probabile improbabilità di queste storie disse: «Sa, purtroppo quei bei delitti non accadevano tutti i giorni, allora bisognava un po' inventare».

E noi, tutti noi, attorno ad ascoltare, non solo noi bambini ma anche i grandi, a occhi spalancati, orecchie tese e bocca aperta, pronti a commuoverci per quegli orribili delitti e a ridere per le battute e le storielle grassocce, lì a vedere rinnovarsi il miracolo dello spettacolo di piazza. E i grandi comperavano questi fogli, più grandi di un giornale, con quelle storie mirabolanti, cantate sempre su quelle tre o quattro melodie, in modo da poterle facilmente cantare, canti che poi quelli più musicalmente dotati imparavano a memoria, anche venti stanze senza battere ciglio, e ricantavano, per il diletto di tutti, nelle serate a veglia o quando si spannocchiava o in altre occasioni del genere.

 

 

                               

 

 

Ora i cantastorie sono fuori dal tempo, i più scomparsi, i sopravvissuti che ripetono sempre se stessi e quello che facevano in spettacoli di "folclore" alle varie sagre, ma sono (e lo sanno) un relitto, qualcosa che si torna a fare a testimonianza del passato, come quegli oggetti della civiltà contadina chiusi nella teca di un museo e non più usati per le loro vere funzioni.

Anche i mercati, dicevo, non hanno più quel fascino; ci vado sempre, per inseguire chissà quali fantasmi, ma trovo le stesse cose in tutte le città d'Italia, senza distinzione, e scommetto che anche all'estero le differenze sarebbero poche. Unica cosa che mi affascina ancora i banchi degli attrezzi agricoli, dove mi fermo attirato dai falcetti (ma credo che da noi li chiamino ségoli), dalle lame delle zappe, dai coltelli, dalle roncole, dai pennati e roba consimile. Ho comperato, recentemente, un paio di forbici da potatore, marca, mi pare, "Due Tori". So che non me ne farò quasi niente, ma il ricordo di quelle che ho visto passare fra le mani di chi mi ha preceduto mi affascinava e le ho prese, anche se le tengo lì, inutili, come gli oggetti chiusi in quei musei.  [.....]