IL MUSEO DEI MOSTRI DI CERA
di Italo CALVINO
( da “Collezione di sabbia” – OSCAR MONDADORI – 1994 )
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In una vetrina sulla strada, una giovane donna è coricata supina in una fluente veste bianca guernita di merletti, il viso addormentato dai delicati lineamenti d'un giallo mortuario, il seno castamente coperto che si solleva e palpita in un respiro regolare. Poco più in là un manifesto rappresenta, fotografati a colori, due fratelli siamesi, o per meglio dire un ragazzo unico che al di sopra dello stomaco si sdoppia in due ragazzi identici. Intorno, una facciata di tela dipinta di rosso con fregi dorati e la scritta: «Grand Musée anatomique-ethnologique du Dr. P. Spitzner».
Per più di ottant' anni, a partire dal 1856, il museo delle cere anatomiche del Dottor Spitzner è stato un'attrazione delle fiere, soprattutto nelle città del Belgio. Dapprincipio era stato installato a Parigi, in una sede stabile, con tutti i crismi dell'istituzione scientifica (ottanta dei suoi pezzi provenivano dalla celebre collezione di modelli patologici del Dr. Dupuytren); varie vicissitudini ne fecero un museo vagabondo che trovò il proprio posto tra i baracconi delle fiere, le giostre, i tiri a segno, i serragli. Questo, sempre proclamando il suo intento educativo e moralizzante: l'opuscolo del programma s'apriva con una specie di decalogo di propaganda per la salute, prima gioia e primo dovere dei buoni cittadini; le visioni orripilanti che il museo presentava (tumori e ulcere e bubboni, o fegati cirrotici e stomaci fibrosi) dovevano inculcare nei giovani il terrore delle malattie veneree e del l'alcolismo. Ma le sezioni dedicate a queste malattie «colpevoli» erano solo una parte, sia pur importante dell'esposizione, che tutt'insieme sembrava invitare a fissare gli occhi su ciò da cui siamo di solito inclini a distoglierli: le alterazioni possibili della nostra carne, la fisionomia nascosta delle nostre viscere, lo strazio che risentiamo in noi stessi se assistiamo a un'operazione chirurgica.
A questa pedagogia del raccapriccio, veniva unita stranamente la documentazione etnologica: una sfilata di statue di cera che rappresentavano i selvaggi boscimani o australiani o indiani d'America, in grandezza naturale, una visione che in quei tempi pre-cinematografici doveva essere molto più «d'effetto» di quanto non possiamo oggi immaginare. A ben vedere, anche in questa sezione etnologica dominava il motivo comune a tutto il museo: la nudità «diversa», intima come ogni nudità ma resa distante dalla malattia, dalla deformità o dall' estraneità di civiltà o di razza, con in più il disagio che dà la cera quando imita il pallore della pelle umana.
Chi fosse in realtà questo Dottor Spitzner non è chiaro. Si sospetta che non fosse affatto un medico. Nelle fotografie, tanto lui che sua moglie hanno più l'aria d'impresari da fiera che d'apostoli della scienza; ma non si può mai dire. Certo, il sadismo, componente essenziale del mondo visuale che egli ci propone, era di marca diversa da quello più lirico del fiorentino Clemente Susini o da quello più stregonesco del napoletano Raimondo di Sangro o da quello puramente spettacolare della inglese d'adozione Marie Tussaud. Ma questi tre nomi appartengono tutti al Settecento, con la complessità di atteggiamenti intellettuali e psicologici che quel secolo comporta; mentre la data di fondazione del Museo Spitzner ci porta in piena epoca di positivismo e scientismo e pedagogia divulgativa; data non meno gloriosa, comunque, se si pensa che è la stessa della pubblicazione delle Fleurs du mal e di Madame Bovary e dei relativi processi contro ciò che allora veniva aborrito o esaltato come «esplorazione del vero».
Come in quei casi sublimi, così anche la non ben definibile impresa del Dr. Spitzner ebbe a lottare contro l'ostilità dei benpensanti, le censure dell' autorità, le proteste dei padri di famiglia; e le stesse battaglie si ripetettero nel nostro secolo, quando la signora Spitzner, rimasta vedova, rimise in attività il museo itinerante negli Anni Venti. Sta il fatto che nelle memorie di vari scrittori e artisti belgi il primo ingresso trepidante nel padiglione del Museo Spitzner occupa un posto suggestivo: basti dire che Paul Delvaux ha dichiarato che per la formazione del suo mondo visionario fu questa l'esperienza fondamentale, prima ancora della scoperta di De Chirico.
Disperso nella guerra (che distrusse in un bombardamento i cartelloni esterni a colori, certamente elemento non trascurabile del suo fascino), ritrovato in un magazzino, il Museo del Dr. Spitzner è stato ora ricostruito ed esposto temporaneamente a Parigi dal Centro culturale belga, nella piazza di Beaubourg. La prima cosa che colpisce è quanto la fedele imitazione della natura, anziché intemporale, risulti carica del colore dell' epoca. È lo sguardo con cui questi modelli sono stati concepiti che è ottocentesco: d'attrazione e di distanza insieme, di celebrazione del «vero» e insieme di condanna.
Nella ricostruzione dell'ambiente s'è cercato di conservare l'atmosfera tra lo scientifico e il losco, insieme di laboratorio ospedaliero, d'obitorio e di baraccone di luna-park che doveva avere allora, compresa la penombra in cui risaltano le nudità cadaveriche, e la smorzata musichetta da banda paesana. Manca solo la voce degli imbonitori e dei ciceroni che - a detta delle cronache - illustravano la «Venere anatomica» smontabile in quaranta pezzi, passando dalla fragranza seducente dell'epidermide al cupo intrico dei vasi sanguigni e dei gangli, al groviglio dei nervi, alla bianchezza dello scheletro. Non soltanto modelli in cera sono esposti, ma anche reperti naturali, come per esempio una pelle umana completa, interamente conciata, d'un uomo di 35 anni (pezzo unico, avverte il catalogo, quale nessun museo ne possiede d'eguale): questo tappeto umano, schiacciato come un fiore nelle pagine d'un libro, m'è apparso là in mezzo come l'immagine più fraterna e riposante. Devo ammettere che non ho mai sentito l'attrattiva delle viscere (così come non ho mai sentito una forte spinta a esplorare l'interiorità psicologica); da ciò forse la mia preferenza per quest'uomo tutto in estensione, spiegato in tutta la sua superficie, escludente ogni spessore e ogni intenzione riposta.
Insomma, al di là delle note d'atmosfera, l'esposizione del Dr. Spitzner non può avere in me un buon cronista: il mio sguardo tendeva istintivamente a sfuggire da ogni immagine in cui il dentro s'effonde nel fuori. Soprattutto nel padiglione delle malattie veneree ho preferito non sostare, confortato dalla notizia consolante che alcuni aspetti clinici ivi rappresentati sono oggi scomparsi per i progressi terapeutici. (Questo è detto nel catalogo che vanta l'interesse storico dell'esposizione anche per il medico specialista, dato che certe lesioni sifilitiche ormai «hanno abbandonato la scena patologica»).
Preferisco chinarmi in raccoglimento sulla campana di vetro che racchiude una riproduzione della testa ghigliottinata dell'anarchico Caserio, modellata in cera subito dopo che l'originale era caduto nel paniere (1894), con la trancia del collo fresca come in una macelleria, l'espressione fissata per sempre negli occhi sbarrati e riversi, nelle narici dilatate, nelle mascelle serrate: un risultato non dissimile da quello d'una improvvisa fotografia col flash, ma qui l'oggettivazione è assoluta e senza residui.
L'esempio di fantasia sadico-surrealista più incredibile si trova tra le rappresentazioni delle fasi del parto e delle operazioni ginecologiche. Un manichino completo di paziente d'un taglio cesareo si presenta a occhi aperti, col volto contratto dal dolore, la pettinatura inappuntabile, le caviglie legate, vestita d'un camicione con pizzi che s'apre solo sulla parte tagliata dal bisturi e sul feto che s'affaccia. Quattro mani d'uomo sono posate sul suo corpo (due che operano e due che la premono alla vita): mani fini e ceree dalle unghie ben curate, mani fantomatiche perché non sorrette da braccia ma solo guarnite di candidi polsini e d'orli di maniche di giacca nera, come se tutta la cerimonia si svolgesse tra persone in abito da sera.
Tra le attrattive che facevano (e fanno) accorrere il pubblico è certo quella che figura nel catalogo come «collezione di mostri». C'è il facsimile in cera del pube d'un certo John Chiffort, «nato nella contea del Lancashire, riprodotto dal vero all'età di vent'anni; egli possiede tre gambe e due peni, entrambi atti alla procreazione». Se non fosse per la gamba centrale, atrofizzata e francamente sgradevole alla vista, i due peni, simmetrici e paralleli hanno una naturalezza e un'urbanità tali da convincere che quella potrebbe essere benissimo la dotazione normale d'ogni uomo.
Il caso opposto è quello dei fratelli Tocci, nati in Sardegna nel 1877, che avevano ciascuno la sua testa e il suo paio di braccia e di spalle perfettamente normali, ma dall'altezza dello stomaco in giù erano un'unica persona, con un unico ventre e un unico paio di gambe. Il loro manichino di cera (riprodotto anche nei manifesti dell'esposizione) li raffigura all'età apparente di nove o dieci anni, e l'emozione che suscita è accentuata dal fatto che i loro visi sono quelli di due bellissimi bambini dall'aria vispa. « Essi godono attualmente d'eccellente salute e hanno fatto una tournée nelle principali capitali d'Europa. Essi sono incontestabilmente il fenomeno più curioso che si sia mai potuto vedere». A questo testo tratto dal vecchio catalogo segue una nota d'aggiornamento che dice: «Nel 1897, i fratelli Tocci, dopo aver fatto fortuna, si sposarono con due sorelle e si ritirarono in una proprietà nei dintorni di Venezia, dove sarebbero morti nel 1940 all'età di 63 anni».
Il guaio è che queste notizie riportate dal catalogo sono in gran parte false. Posso affermarlo perché proprio in questi giorni m'è capitato sottomano il recente volume di Leslie Fiedler, Freaks, che, oltre a capitoli sui nani, i giganti, le donne barbute, gli ermafroditi, contiene una trentina di pagine sui fratelli siamesi ricche d'informazioni essenziali. Da esse risulta che Giovanni Battista e Giacomo Tocci, battezzati come due persone distinte sebbene dalla settima costola in giù fossero una persona sola, dovevano sopportare un altro grave handicap: il loro unico paio di gambe non era in grado di sostenerli né di camminare. (Difatti nel manichino del Dr. Spitzner li vediamo appoggiati a una ringhiera). Questa immobilità limitava molto le loro possibilità nelle esibizioni di «fenomeni viventi», per cui, dopo una tournée internazionale piuttosto breve ma estenuante, dovettero rinunciare alla carriera del circo e si ritirarono in Italia dove si spensero tristemente (non trovo la data, ma presumibilmente in giovane età).
La notizia delle nozze con due sorelle deriva probabilmente dalla contaminazione con un'altra storia vera (l'unica del genere che possa considerarsi in qualche modo «a lieto fine»): quella dei due fratelli siamesi eponimi (cioè quelli la cui fama è all'origine dell'uso di chiamare «siamesi» tutti i gemelli saldati in una parte del corpo), Chang e Eng, nati nel 1811 nel Siam da una povera famiglia cinese e morti negli Stati Uniti nel 1874. Caduti presto in mano d'impresari senza scrupoli che li trasportarono in America credendo di disporre di loro come d'un oggetto, Chang e Eng furono capaci di rendersi indipendenti e di gestire la propria fortuna senza lasciarsi sfruttare nemmeno dall'esoso Barnum, nel cui circo s'esibirono fino al 1839.
La storia di Chang e di Eng è il trionfo dell' avvedutezza cinese e insieme del credo americano nel superamento delle avversità e dei pregiudizi: difatti riuscirono a ritirarsi in campagna nel North Carolina e a guadagnare il rispetto del chiuso mondo degli agricoltori bianchi, tanto da sposare due sorelle, figlie d'un agiato proprietario nonché pastore della Chiesa Battista. Dalle loro spose ebbero rispettivamente dodici e dieci figli, tutti normali, per cui oggi la loro discendenza ammonta a un migliaio di cittadini americani.
L'immagine dei fratelli Tocci sui manifesti murali colpì l'immaginazione di Mark Twain che abbozzò un racconto ispirato al loro caso, così come il caso di Chang e di Eng gli aveva dato materia per un altro racconto. (Il tema del «doppio» è ricorrente nella sua opera). Il libro di Fiedler, che ha per sottotitolo Myths and Images of the Secret Self, registra e mescola le notizie storiche con le invenzioni letterarie e cinematografiche e con l'evocazione degli archetipi mitici. Le pagine più interessanti del libro restano le storie vere: la vita dei «fenomeni viventi» nel mondo del circo, quasi tutte storie molto tristi. Ma il punto di partenza di questo volume di Fiedler è una riflessione sulle alterne fortune culturali del termine freaks, un tempo connotato da affascinato orrore, e che ora è stato fatto proprio «come un titolo onorifico da giovani fisiologicamente normali ma dissidenti, altrimenti noti come hippies o capelloni». Di qui Fiedler parte per ricercare il valore che le forme di «diversità» fisica hanno rivestito nelle varie culture, come interrogazione sui confini e sui ruoli che definiscono l'esistenza umana. In questo quadro, il museo delle cere del Dottor Spitzner può dar spunto a qualche riflessione supplementare.
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