QUANDO L’ITALIA NASCENTE

ELIMINO’ I SUOI ZINGARI

 

di Adriano PROSPERI

 

( da www.lindiceonline.com – maggio 2009 )

 

 

 

 

L’arpa: uno strumento disceso dall’Olimpo, raccolto dalle mani delicate di aristocratiche fanciulle, per la gioia di pittori neoclassici. Così lo rappresentano le immagini della nostra cultura. Immagini ingannevoli: il percorso storico reale portò l’arpa degli dei antichi nelle mani di un popolo di contadini e di pastori e ne fece il simbolo stesso di un borgo sperduto della Basilicata, Viggiano.

 

 

 

 

 

Quel percorso è stato ricostruito nel libro di Enzo Vinicio Alliegro (L’arpa perduta. Dinamiche dell’identità e dell’appartenenza in una tradizione di musicanti girovaghi, pp. 172, € 14, Argo, Lecce 2008), che offre un bell’esempio di come e perché si faccia una ricerca di storia di culture. Per ricostruire una cultura popolare bisogna muoversi in direzioni insolite, raccogliere frammenti di informazioni, esplorare cronache e atti notarili, notizie di giornale, archivi di polizia, muoversi con abilità e intelligenza nel campo di battaglia dove si scontrano le rappresentazioni della cultura dominante e i frammenti sopravvissuti di un mondo sconfitto e cancellato. Ma non solo di storia si tratta qui: quello che Alliegro ci aiuta a capire è il percorso che porta culture e tradizioni oltre la linea di frontiera del decente e del consentito e consegna alla fine i perdenti alla vergogna sociale e perfino alla prigione.

 

 

 

 

 

Questa storia parte dalle statuine dei presepi napoletani del Seicento: qui, tra le mani dei suonatori girovaghi, compare improvvisamente un’arpa. È il filo intorno a cui si svolse la vicenda dei musicanti di Viggiano. Questo paese della Basilicata, oggi al centro di  un’avventura petrolifera italiana dagli esiti sociali e ambientali assai problematici, fu per alcuni secoli la patria da cui muovevano all’inizio dell’inverno gruppi di musicanti. Erano uomini e bambini: lasciavano nelle loro capanne gli attrezzi del lavoro dei campi e andavano per le vie di lontane città suonando arpe.
“I viggianesi sono per lo più sonatori di arpa”, annotava a fine Settecento il bibliotecario di Ferdinando IV Lorenzo Giustiniani. Chi fosse stato l’iniziatore di
quella tradizione non lo sappiamo. Ma è un fatto che fu proprio l’arpa a costituire il mezzo di sopravvivenza e allo stesso tempo l’orgoglio e il simbolo distintivo di contadini e di pastori, lo strumento che condusse il popolo di Viggiano sulle strade del mondo, per le vie delle grandi città europee e sui bastimenti che andavano in America.

 

 

 

 

 

Partivano in novembre, arrivavano a Napoli per la novena di Natale, suonavano serenate e mattinate per chi li assoldava.

Poi andavano oltre, raggiungevano Genova, si imbarcavano. Si muovevano in gruppi: ogni adulto portava con sé dai tre ai sei minorenni, apprendisti musicanti. Come per ogni apprendistato di mestiere, erano i genitori che li affittavano agli adulti: ne ricavavano il guadagno raccolto in viaggio, se e quando i bambini tornavano vivi al loro paese dopo viaggi di mesi e mesi. Un’economia di sussistenza trovava in questo la possibilità di andare avanti: e vi trovava anche la molla per un salto di classe nella gerarchia del paese. Enzo Vinicio Alliegro ha ricostruito l’emergere dei suonatori nella chiusa gerarchia sociale di Viggiano analizzando atti notarili e documenti demografici e fiscali.

 

 

 

 

 

Ha raccontato anche i miracoli prodotti dalla cultura dell’arpa quando quello strumento elementare di sussistenza stimolava le doti naturali di cui anche i figli del popolo disponevano. Un caso celebre fu quello del viggianese Vincenzo Nicola Bellizia, figlio di un povero falegname, che divenne celebre negli anni quaranta dell’Ottocento come creatore di una stupenda e raffinatissima arpa a pedali. Fu uno dei prodotti di quell’incontro di conoscenze musicali e di saperi artigianali che si produsse in una “micro-civiltà della musica”.

Ma sulla linea di displuvio della metà dell’Ottocento, quella cultura di vaganti si doveva scontrare con le ambizioni di decoro nazionale della borghesia ottocentesca: si alzarono frontiere, si investigò su quelle torme di bambini – anche una decina e più – che il capogruppo faceva passare per figli suoi; le autorità dello stato furono sollecitate a far cessare lo sconcio di una mendicità infantile che disonorava il paese d’origine. La macchina dell’opinione e le reti della polizia calarono sugli ignari musicanti che, al rientro in Italia, fieri dei loro successi e della loro abilità, si videro mandati in carcere. All’inizio non capirono il perché, anzi si difesero esibendo attestati di quella loro professione che intanto era diventata per le autorità italiane una vergogna da cancellare.

 

 

 

 

 

Associati agli zingari, pagarono insieme agli zingari lo scotto di un cambiamento politico e culturale che li relegava tra i migranti incontrollabili, tra i ladri e i furfanti. Scomparvero di botto. E non ne restò memoria.

Un romanziere del secondo Ottocento elaborò distorcendolo un frammento di quel mondo: nel romanzo di Hector Malot, Senza famiglia, incontriamo Rémi, il bambino francese che imparada un italiano a suonare l’arpa per chiedere l’elemosina dei passanti. Rémi era naturalmente lo smarrito figlio di eletta progenie destinato a uscire alla fine dall’inferno dei reietti. Un secolo dopo, la regista giapponese di cartoni animati Osamu Dezaki doveva trasformarlo nel più celebre orfanello del mondo. Nella storia di Malot l’italiano buono è il cantante Vitali: ma Garofali, l’italiano che fa suonare l’arpa a una torma di bambini, è diventato irrimediabilmente cattivo.

Quella ricostruita e benissimo raccontata da Alliegro è una vicenda da cui si impara molto e che fa riflettere. Dagli archivi del passato emerge una storia cancellata, riportata alla luce della conoscenza storica con i colori e i sapori aspri della vita reale. Ma dal racconto delle lotte di un popolo per la sopravvivenza e della fioritura culturale che ne nacque si può ricavare anche una verifica sperimentale di come una società alza le barriere del diritto a esistere ed espelle le diversità che ospita nel suo seno. La nazione italiana nascente era fatta di poveri, di migranti dai mille mestieri: in una parola, di zingari.

Quando se ne accorse li eliminò.