IL SERRAGLIO INSANGUINATO

 

di Luigi BARBERIS – G. G. BRUNO illustr.

 

( da " Il serraglio del domatore Vanderfeld " – G. B. PARAVIA & C. Editore - 1908 )

 

 

 

 

 

 

 

Venne la domenica. Un insolito movimento si notava sotto il viale degli olmi: capannelli di operai vestiti a festa si fermavano a leggere i variopinti manifesti affissi al tronco degli alberi, mentre altri si umettavano la gola colle acque cedrate ed i sorbetti d'un gelatiere ambulante. Ma la maggior parte del pubblico, essenzialmente composto di fanciulli d'ambo i sessi, era estatica dinanzi a due tele immense che fiancheggiavano il peristilio d'accesso al teatro.

 

Quella di destra rappresentava un immenso gabbione, nel quale un uomo vestito di velluto cremisi a cordoncini d'argento, passeggiava sul dorso di parecchi leoni sdraiati, mentre col frustino menava staffilate sul muso d'una tigre che, colle fauci spalancate, minacciava di far del domatore un solo boccone.

 

Quella di sinistra era assai complicata. Figurava un bastimento a vapore, ormeggiato alla banchina d'approdo, e dal ponte si facevano passare a terra alcuni carri, il cui colore e forma riproducevano esattamenente quelli che appartenevano al proprietario del serraglio. Una gran folla stava osservando lo sbarco, allorchè, per un falso movimento, uno dei due carri urtando contro lo spigolo del parapetto aveva mandato in frantumi una delle pareti. Un grido di raccapriccio doveva essere echeggiato nella folla, poichè dalle fessure praticate eran balzate a terra due stupende tigri del Bengala. Parecchi colpi di pistola partirono e le due belve ferite, eccitate dal dolore, dalle grida degli spettatori, s'erano lanciate nel mezzo facendone orribile scempio. Si vedevano sulla tela, dipinte a colori esagerati, le membra sparse e sanguinose sul terreno, ed una delle tigri che teneva fra le poderose zampe un ragazzino.

Ma il pittore, che senza dubbio conosceva quanto vale il solleticare l'amor proprio nazionale, aveva aggiunto al quadro due robusti alpini che stavano per gettarsi coraggiosamente sulle belve ed ucciderle a colpi di daga, mentre alcuni carabinieri finivano l'altra a schioppettate.

 

In fondo al peristilio, a cui si accedeva salendo alcuni gradini protetti da maniglie di ottone luccicanti, eravi un tavolino a cui sedeva una maestosa matrona che aveva anelli a tutte le dita ed un paio d'orecchini così fenomenali che pareva dovessero strapparle le orecchie. A' suoi piedi stava accucciato Crusoè. Alla sua destra pendevano due portiere di panno pesante che davano accesso ai primi ed ai secondi posti.

 

 

 

 

 

L'attenzione dei fanciulli era poi specialmente attratta dalla presenza d'un corvo marino che passeggiava con aria di sussiego su e giù per lo stretto palco.

Ad un tratto si fece udire un suono rauco, che aveva alcun che di selvaggio. Tutti i capannelli che oziavano sotto il viale si affrettarono ad accostarsi al serraglio. Un moro autentico, non vestito che d'un paio di calzoni bianchi, di stranissimo effetto su quella pelle color d'ebano, soffiava dentro ad una conchiglia marina, traendone quei dolci suoni che laceravano le orecchie degli astanti. [ ….. ]

 

 

 

 

 

- Non vi esponete troppo? - chiese il coscienzoso Robinson, stringendo la mano a Vanderfeld. Voi avete bensì il sangue freddo del domatore, ma non la forza prodigiosa del calabrese, ed io sarei inconsolabile se...

- Non temere, mio buon Robinson. Debbo farlo, ne va del mio onore. Come oserei presentarmi ancora al pubblico se io, domatore di professione, conosciuto nel vecchio e nuovo continente, mi lasciassi sopraffare da questo suonatore di piva? Del resto non c'è motivo ad inquietarsi per ciò. Ho già fatta una cena simile a Chicago e mi riuscì a meraviglia. Buona notte dunque, Robinson, e arrivederci a domattina, perchè dormirò all'albergo.

E se ne andò.

Robinson scosse tristamente il capo e passando dinanzi alla gabbia della tigre per recarsi a dormire nel carro, vide gli occhi della belva che scintillavano nella oscurità come carbonchi.

 

A motivo di quest'inquietudine che gli turbava il sonno, non chiuse occhio in tutta la notte ed al mattino, dovendo andare in città pei preparativi della serata, raccomandò ad un inserviente di far eseguire alcune riparazioni al parapetto della gabbia centrale.

Intanto altri manifesti, più attraenti di quelli della vigilia, annunziavano il nuovo grandioso spettacolo, a cui s'era aggiunta ancora l'attrattiva del pasto al serpente boa.

 

Fin dalle sette il recinto era già rigurgitante di spettatori, fra i quali, in prima fila, si notavano Espartillo e Wilkinson. Nella gabbia vuota della pantera erano state distese alcune coperte di lana e su queste giaceva l'enorme boa, immobile, cogli occhi vitrei, fissi sul pubblico che lo guardava con quell'invincibile senso di ripugnanza che generalmente si nutre pei rettili.

Quando la musica ebbe finito di suonare, entrò nella gabbia Robinson con un paniere contenente mezza dozzina di conigli. Ne estrasse uno ch'egli sbalordì con un buffetto sul naso e quindi, aperte le mandibole al rettile, glie lo introdusse in bocca.

Allora cominciò l'assorbimento della preda che scomparve lentamente nelle fauci dell'animale, per dar luogo ad un secondo coniglio e successivamente ai rimanenti, che il serpente laboriosamente digerì svolgendo le spire.

 

 

 

 

 

Fortunatamente il pasto al rettile era finito, ed il pubblico, che incominciava ad impazientirsi, tacque vedendo entrare Vanderfeld nella gabbia centrale.

Eseguiti dapprima vari esercizi, a cui presero parte contemporaneamente anche i due orsi, il domatore annunziò dieci minuti di riposo per aver agio a far rientrare nelle rispettive gabbie i due orsi; dopo di che si sarebbe passato all'ultima e più pericolosa parte del trattenimento: la cena a quattr'occhi.

Un silenzio sepolcrale accolse il domatore allorchè riapparve nella gabbia col frustino nelle mani inguantate. Egli s'appressò alla tigre, che misurava a passi concitati la stretta prigione, e toccandola leggermente col frustino le accennò di coricarsi. Essa obbedì ed allora, come nella sera precedente, fu aperto il finestrino del soffitto ed apparve una coscia di cavallo su cui erano infilzati due aranci.

Non appena la carne apparve agli sguardi bramosi della tigre, questa spiccò un salto formidabile, la strappò dall' uncino a cui era appesa e serratala tra le zampe, vi cacciò dentro avidamente i denti.

Vanderfeld allora, afferrando il femore che sporgeva in fuori, applicò una terribile frustata sul muso della belva e con un'energica strappata tolse dagli artigli la carne sanguinolente.

 

Quell'atto d’incredibile audacia scosse gli spettatori, che già s'apprestavano ad applaudire, allorchè la tigre ruggendo di collera si scagliò contro il domatore, lo atterrò, lo coprì col suo corpo dilaniandogli il viso e le membra coi terribili unghioni.

Un grido generale d'orrore si levò fra gli spettatori; alcuni, inorriditi, fuggirono; altri tumultuando si accostarono alla gabbia per tentare di soccorrere l'infelice Vanderfeld.

Robinson, munito d'una lancia, colpiva ripetutamente al fianco la belva, ma questa non lasciò presa finchè non vide irrigidito il domatore.

Balzò allora in piedi, rinculò in fondo alla gabbia e prendendo lo slancio si scagliò contro la fronte della gabbia con tale impeto, che una delle sbarre, già malferma nel suo alveo e non aggiustata per dimenticanza dell'inserviente, si staccò lasciando un vuoto bastante a passarvi il corpo della tigre.

Wilkinson le sparò a bruciapelo alcuni colpi di rivoltella che, ferendola gravemente, ne aumentarono la ferocia.

Essa balzò sugli spettatori che, pazzi di terrore, si affollavano all'uscita soffocandosi reciprocamente; ne massacrò alcuni, e chi sa quale carneficina avrebbe fatto senza la presenza di spirito di Espartillo. Strappò costui la grossa sbarra di ferro che penzolava in fuori e con un colpo tremendo sul cranio dell'animale ne fece schizzare fuori le cervella. [ ….. ]